Continua il viaggio nei giochi dell’infanzia nel dopoguerra, quando ogni oggetto era utile per diventare giocattolo e pretesto per lunghe ore di gioco in compagnia.
Forse perché gli echi della guerra erano ancora nell’aria, noi bambini dei primi anni ’50 avevamo uno “spirito bombarolo” che ci aveva fatto sviluppare particolari e pericolose competenze. Sapevamo realizzare rudimentali ordigni esplosivi con il carburo o con una primitiva polvere pirica a base di zolfo (ottenuto dai cannelli per il torcicollo), carbone tritato e potassa (dalle pastiglie per la tosse), che poi facevamo scoppiare qua e là. Alcune esplosioni erano particolarmente efficaci, oltre che rumorose: una volta rischiammo perfino di far deragliare un tram (almeno, così sembrò alle nostre menti eccitate…).
In quei tempi, inoltre, nelle alture di Genova attorno al nostro quartiere non era difficile ritrovare proiettili inesplosi, con grande gioia dei più grandi ed esperti che, sapendo staccare l’ogiva dal bossolo, recuperavano pregiati metalli da vendere allo “stracciaio” ed esplosivo per i nostri giochi. Ripensandoci adesso avverto un brivido che l’incoscienza dell’età mi impediva di provare allora, nonostante ogni tanto si venisse a sapere di esplosioni e conseguenti più o meno gravi mutilazioni a danno di nostri coetanei meno attenti… o meno fortunati.
Lo spirito “guerriero” trovava sfogo in frequenti combattimenti, prevalentemente a sassate, con i “nemici” dei quartieri confinanti. Era uno spirito simile a quello dei protagonisti de I ragazzi della Via Pál: talvolta uscivamo dagli scontri feriti e malconci, ma dopo avere subito l’inevitabile pesante reprimenda dei genitori (più dolorosa delle ferite), eravamo già impavidamente pronti per la successiva battaglia.
Un’arma assai utilizzata, nel gioco e nei combattimenti, era la cerbottana (vulgo “cannetta”): era meno pericolosa della fionda e dell’arco e nel suo uso avevamo raggiunto livelli di perfezione. Le più rudimentali, costituite da una normale canna tagliata tra i due nodi, avevano una breve gittata e non assicuravano la precisione del tiro.
La svolta “tecnologica” arrivò grazie al figlio di un elettricista, che ci procurò, tramite il negozio del padre, delle stecche reggi-lampadario (tige, in termine tecnico). Di colpo fu tutta un’altra musica! Diventammo guerrieri imbattibili grazie al tiro più potente e più lungo e, soprattutto, alla precisione nel colpire l’obiettivo.
I proiettili delle cannette (“pifacchiolli” in dialetto) erano costituiti da una striscia di carta arrotolata fino a formare un cono la cui punta veniva sigillata con la saliva: tale sistema era idoneo per un utilizzo a breve termine, per il gioco o l’allenamento, poiché appena la saliva si asciugava il pifacchiollo si apriva. In preparazione di “battaglie”, quando avevamo necessità di un’ampia scorta di munizioni da portare con noi in una specie di cartucciera, sigillavamo il pifacchiollo con la colla: così non si sarebbe aperto e, soprattutto, sarebbe diventato più duro e doloroso.
Con la carta oleata o con l’inserimento di uno spillo era possibile preparare pifacchiolli più dolorosi che però, per la loro pericolosità, furono banditi dai combattimenti con un apposito “trattato”. Le tige, oltre ai miglioramenti citati, consentivano di realizzare con opportuni distanziatori (in genere tappi di sughero) cerbottane multiple, a due o più cannette affiancate, aumentando la rapidità di tiro ed il “volume di fuoco”.
La battaglia coi pifacchiolli era diventata “la madre di tutte le battaglie”…
Foto: George Eastman House