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Ieri ho scelto di parlare di Twitter e la lettura, ossia di come - di 140 caratteri in 140 caratteri - sia possibile dare o restituire valore a un'opera letteraria e farla conoscere a un pubblico molto vasto. Sono due i case history di cui ho parlato: Black box di Jennifer Egan, racconto inedito pubblicato sull'account Twitter del New Yorker (e in italiano su quello di Minimum fax); la riscrittura dell'opera di Cesare Pavese, a partire da La luna e i falò e Dialoghi con Leucò, quest'ultimo attualmente in corso.
Niente di così diverso dal feuilleton, i romanzi a puntate che nell'Ottocento hanno portato al successo - attraverso un mezzo altro rispetto alla letteratura, in quel caso i giornali - autori come Charles Dickens, Alexandre Dumas e Honoré de Balzac. Nel primo caso era solo la Egan a scrivere, una puntata al giorno per una settimana, un appuntamento quotidiano con cui i lettori potevano sintonizzarsi sempre alla stessa ora. Nel secondo si è scelta la formula della scrittura collaborativa, ossia l'invito a chiunque voglia di twittare la frase che più ritengono significativa, usando gli hashtag #LunaFalò e #Leucò.
A questo punto, una delle persone presenti ha sollevato un'obiezione: perché mai si dovrebbe smembrare così un'opera letteraria?
Smembrare.
Una parola forte, ma che a ripensarci fa riflettere su quanto è avvenuto negli ultimi tempi: la comunicazione è diventata frammentaria, smembrata, fatta di timeline costruite sull'avvicendarsi incalzante di centinaia di flash che cambiano di continuo. Siamo però certi che si possa applicare questo stesso concetto alla letteratura? Cartacea o digitale che sia, un'opera letteraria resta pur sempre un testo esteso, compatto, consequenziale, con una sua forma e un suo svolgimento.
Si può smembrare un testo? Rispondere in modo affermativo a questa domanda implica che un testo sia composto di "membra". Esistono numerosi pareri sul concetto di testo, alcuni dei quali approfondiscono (e in un certo senso avallano) il discorso di testo e membra: Roland Barthes, ad esempio, ha scritto un saggio intitolato Il piacere del testo che di fatto rivendica il diritto del lettore a godere del testo che legge, a cannibalizzarlo. E cos'è il cannibalismo, se non lo smembramento, l'annullamento e l'inglobamento di un'entità altra? Barthes dice inoltre che l'apice del godimento del lettore è il fading del linguaggio, la sua dissolvenza, la sua lacerazione.
Se Barthes fosse vivo oggi, chissà quale opinione avrebbe dell'esperimento di riscoperta di Cesare Pavese. Un progetto di smembramento di due fra le sue opere più importanti, che hanno però il fine di riportare il lettore a godere di quelle stesse opere (magari lette anni prima e lasciate a impolverare nel dimenticatoio), a osservarne le membra lacerate per poi ricomporlo e riportarlo in vita?
Un progetto importante anche perché, nel mare magnum di non-lettori che trascorrono molto tempo su Twitter (posso supporre che ve ne siano, e tanti), qualcuno può essere spinto a domandarsi se quel Cesare Pavese di cui ha sentito parlare di sfuggita a scuola (o almeno si spera) e che ha scritto quella frase twittata lì possa essere uno scrittore interessante, da conoscere meglio.
(immagine tratta dal sito della Fondazione Cesare Pavese)
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