Chi davvero piange perché non ha un lavoro, perché non ha futuro, perché si sente ricattato, perché vede il disastro non ha voce, rimane dentro la dannazione del silenzio finché non si arrampica su qualche tetto, non fa qualcosa di clamoroso o non si toglie la vita. In compenso però i responsabili, acquista per osmosi la natura rettile del caimano, piangono lacrime abbondanti, quando seviziano i pensionati o quando vengono rieletti proprio per continuare il bondage su un Paese inerme che è privo ormai di una qualche reale opposizione.
Ma le lacrime di questi arroganti che aderiscono al potere con la stessa ermetica tenacia dei pannoloni riescono ancora ad ingannare un Paese che non sa andare né avanti né indietro, che è ormai come un coniglio paralizzato dal cono d’ombra della crisi. Si vuole il cambiamento, ma non si sa quale: la classe media impoverita teme per i propri piccoli privilegi e si aggrappa a qualsiasi cosa, pur di continuare a sperare in una sorta di via di uscita nella tranquillizzante ”normalità”, mentre i ceti popolari e le nuove generazioni, sterilizzati dalle ideologie e dalle speranze, non sono in grado di costruire un’alternativa globale. Solo su singoli temi, vedi i referendum, o su singole aree vedi la tav o nell’ambito delle comunità cittadine si riesce a coagulare un qualche antagonismo ai massacri e alle ruberie della classe dirigente.
Si vive alla giornata, maledicendo al mattino le larghe intese, ripiegando sull’attendismo alla sera. E tutto questo emerge chiaramente dalle elezioni in Friuli dove c’è stato un drastico calo dell’affluenza, ma dove Pd e Pdl, con programmi o sprogrammi fotocopia, sono arrivati appaiati, il primo perdendo 140 mila voti , il secondo 250 mila: è evidente che ci si sente in gabbia, ma non si ha nemmeno il coraggio di uscirne. Del resto anche il M5s – uscito con le ossa rotte perdendo il 14% sulle politiche, nonostante la campagna a tappeto di Grillo – mostra come il movimento sia riuscito a dilapidare in due mesi il consenso che era riuscito a mettere insieme, nonostante l’appuntamento con le urne coincidesse con il ritorno di fiamma della partitocrazia. Non è difficile capire perché: aggrappandosi a una fumosa palingenesi, non ha saputo cogliere l’occasione di determinare l’inizio di un cambiamento concreto, imponendolo dall’interno del palazzo. Grillo non ha capito il desiderio di “normalità” sotteso alle grida contro la partitocrazia.
Lo stesso desiderio che ci ha fatto assistere senza troppo scossoni alla trasformazione della forma stato da parlamentare a presidenziale: la Costituzione e le garanzie, le libertà che ha garantito muore esalando solo qualche twitt. Ora abbiamo un regime che si regge su un non partito come il Pdl, su un partito esploso come il Pd e su un movimento che non sa che pesci pigliare come il M5s, con una sinistra residuale la cui unica espressione parlamentare vagola tra cantieri e tentazioni di scucire qualche posto. Insomma siamo una Repubblica presidenziale la cui unica possibilità e ambizione è quella di lasciare intatto il pilota automatico della troika. L’unica Repubblica il cui governo reale è fuori dal suo territorio.
Del resto è inevitabile: se non si formano prospettive a lungo termine, se manca una visione di società che non sia solo quella di raddrizzare le storture di questa, se non si ha la consapevolezza che le storture sono connaturate alla predicazione dell’egoismo come ontologia fondamentale e del profitto come l’orizzonte degli eventi mentre si cade in un buco nero, se non si è compreso che lì’impoverimento progressivo non è un effetto indesiderato, ma una strategia, è chiaro che non si uscirà da questo ansioso e timoroso cabotaggio. E tutto ciò che cambierà sarà in peggio. si sta come d’autunno/sugli alberi le spoglie