Siete rientrati dalle vostre vacanze? Forse qualcuno di voi deve ancora partire e qualcun altro ha dovuto rinunciare alle tanto agognate ferie… Ma cos’è che accende il desiderio di preparare la valigia e partire?
Viaggiare, ben più dei soldi, dà felicità. Lo ha dimostrato alcuni anni fa lo psicologo inglese Howard Gardner, misurando la soddisfazione di chi aveva ricevuto un’ingente vincita e confrontandola con quella di chi aveva viaggiato più volte durante l’anno. Un dato confermato dalle più recenti ricerche che, in più, ne spiegano il motivo: il viaggio aumenta le connessioni tra neuroni e quindi l’efficienza del cervello. Inoltre, dà benessere proprio perché spezza la quotidianità e qualche volta può perfino curare vere e proprie malattie. Per non parlare dei benefici psicologici: secondo gli studiosi viaggiare migliora il senso di controllo sulla propria vita, incrementa la capacità di entrare in relazione con gli altri e modifica perfino la propria scala di valori.
“D’altronde, i nostri antenati erano nomadi. Ed è per questo che siamo programmati per viaggiare” spiega Marco Villamira, medico e autore di un libro sulla psicologia del viaggio. Esplorare lo spazio, ma anche lasciarsi affascinare da ciò che si incontra, è un’esigenza innata, visto che è comune a molte culture, anche a quelle tribali.
Di più: per alcuni studiosi il viaggio è sempre stato il motore della storia perché gli spostamenti individuali o di intere comunità avvenuti nei secoli hanno permesso contaminazioni e conoscenza tra popolazioni lontane, spesso alla radice di mutamenti fondamentali nella cultura e nella tecnologia. L’uomo, insomma, è da sempre un animale con la valigia.
Solo di recente però si è capito che cosa spinge a chiudere la porta di casa alle nostre spalle: percorrere luoghi sconosciuti, degustare cibi mai assaggiati prima o imparare anche poche parole in un’altra lingua sono attività che costruiscono nuove connessioni nel cervello. Insomma, più che mantenere in salute i circuiti cerebrali esistenti, le esperienze di viaggio sembrano crearne di nuovi. Non solo. Uscire dalla quotidianità è talmente benefico per il nostro cervello che diventa una cura. E’ il caso del disturbo post traumatico da stress, comune tra i sopravvissuti a un disastro e tra gli ex militari che sono stati a lungo in zone di guerra. Alcuni ricercatori della University of Southern Main of Portland hanno condotto in campagna, per tre giorni di relax e pesca, 74 veterani tra i 33 e i 60 anni affetti da questo disturbo. Hanno valutato la loro attenzione, l’umore, la qualità del sonno, l’ansia e il grado di depressione due settimane prima del viaggio, l’ultimo giorno della vacanza e sei settimane dopo il ritorno. Confrontando i dati, hanno notato una forte riduzione dei sintomi da disturbo post traumatico già alla fine della vacanza. e il beneficio era ancora presente sopo 6 settimane.
Viaggiamo, quindi, perché il nostro cervello ha bisogno di “crescere”. E comincia a farlo già prima della partenza, immaginando il luogo dell’arrivo. Ma a soddisfare il viaggiatore non è tanto la rispondenza o meno del posto visitato alle aspettative, ma l’adattamento agli inevitabili imprevisti e sorprese del viaggio: se l’adattamento avviene in tempi brevi si resta soddisfatti, altrimenti no.
Sono meglio i viaggi lunghi o brevi? Una ricerca ha mostrato che la soddisfazione cresce dal secondo giorno di vacanza in poi, fino al penultimo giorno prima della partenza, quando probabilmente il dispiacere di tornare a casa fa calare il buon umore. Ma la felicità aumenta di nuovo l’ultimo giorno: in fondo, spiega il ricercatore Nawijn “anche tornare è un viaggio”. Dalla ricerca è emerso un altro dato interessante: un viaggio abbastanza lungo da consentire un buon miglioramento dell’umore va da 3 a 6 giorni. Che sia meglio fare tante vacanze brevi piuttosto che una lunga?
Fonte: Focus. Scoprire e capire il mondo. N. 262 – Agosto 2014