Una delle osservazioni più interessanti che mi è capitato di leggere, via Goodreads, sull’ultimo libro di Paolo Nori, è in realtà una stroncatura: “Sarei stanca di leggere un libro di Paolo Nori e leggere, per il 70%, pensieri e aneddoti che ho già letto sul suo blog, nei suoi articoli e nei suoi libri precedenti”.
Il linguaggio di “Siamo buoni se siamo buoni” in effetti è quello tipico dei diari personali che, siano sul web oppure no, segue il filo dei pensieri, su più livelli, mescolando realtà e finzione.
“Siamo buoni se siamo buoni” appare a tutti gli effetti un ipertesto, anzi, un iperromanzo, e come tale può essere letto seguendo la sequenza dei capitoli o saltando tra le varie scene che descrivono, senza un’apparente soluzione di continuità, le vicissitudini del protagonista, i salti nel suo passato, le incursioni nella sua vita di un misterioso personaggio di nome Cianuro.
Ermmanno Baistrocchi, già protagonista di un precedente libro di Nori, “La banda del formaggio”, ci racconta qui il suo passaggio da editore a scrittore, come un passaggio alla “significanza”, che avviene suo malgrado. Già, perché il suo primo romanzo, che si intitola proprio “La banda del formaggio”, sarebbe dovuto uscire solo postumo, invece, viene dato alle stampe anzitempo, come strategia di marketing, dopo un incidente che gli è quasi fatale (e di cui Nori è stato realmente vittima nel 2013).
Visto come si mescolano i livelli, direi che entrambi, da lì in poi, sono costretti a fare i conti con la coscienza “sfrondata da un bel po’ di cazzate”.
Il mio mestiere nuovo, a pensarci, non era molto diverso dal mio mestiere vecchio; sia prima che dopo si trattava di fare dei libri, solo che, adesso, che i libri da fare li dovevo scrivere io, io avevo costantemente la consapevolezza di non essere capace.
Adesso che mi ero un po’ più esposto al giudizio degli altri, mi succedeva che più gli altri mi trovavano significante, più io sapevo di essere insignificante.
Forse per questo Baistrocchi (o meglio Nori) dissemina tutto l’arco del racconto, dall’uscita dall’ospedale fino al sospirato ritorno dell’Emma, di piccole cose insignificanti, di quei momenti in cui “uno si aspettava chissà che cosa, invece succedeva chissà niente”.
Il cartellino del check-in di un hotel che salta nitido, bianco e marrone, fuori dai ricordi, gli autobus “con quel numero lì, 8, e quel colore lì, verde”, diventano qualcosa di più, diventano dei pezzi di vita.
Nori dimostra di saper fare, attraverso la scrittura, ciò che nel libro attribuisce al regista Andrej Tarkovskij, ossia, fare delle cose puerili e indietro “come la coda del maiale”, cose che ti scavano dentro. Proprio così, a leggere “Siamo buoni se siamo buoni”, forse ti può sembrare di leggere cose già scritte altrove, ma in realtà ci ritrovi sensazioni che ti toccano e ti riguardano “e questa in sostanza è l’arte e è più vera di quello che è vero”.