Sul nostro profilo twitter, questa settimana, sono arrivate un paio di considerazioni da una lettrice, che meritano una riflessione.
La nostra lettrice scrive: "precario è vittima, flessibile è artefice della propria carriera" e ancora "essere flessibile è atteggiamento, è saper cambiare per crescere, senza essere legati ad un contratto".
Queste considerazioni portano, però, ad una domanda: siamo flessibili o precari, ma, soprattutto, abbiamo la libertà di scegliere tra l'uno e l'altro?
Innanzitutto, cosa di intende per lavoro flessibile? Ce lo suggerisce la nostra stessa lettrice: flessibilità significa, per il lavoratore, il continuo miglioramento della propria posizione lavorativa – non necessariamente nella stessa azienda, anzi -, sia dal punto di vista del salario, che dal punto di vista delle mansioni, grazie alla formazione continua, sia sul posto di lavoro (il contratto di apprendistato ne è l'esempio migliore), sia tramite appositi corsi di formazione.
Insomma, con la crescita del mio bagaglio di conoscenze e di esperienze, posso permettermi di cambiare impiego quando voglio, andando ad occupare una mansione migliore della precedente. Questo, in sintesi estrema, è il concetto di flessibilità di cui, da anni, sentiamo parlare da questo o da quel riformatore.
In un mondo perfetto, sarebbe un sistema ottimo, che garantirebbe al lavoratore una crescita continua dal punto di vista lavorativo e sociale, permettendogli di essere veramente padrone della sua vita lavorativa. In un mondo perfetto… Purtroppo, però, la linea che delimita il confine tra flessibile e precario, è molto sottile.
Si devia nel precariato, quando l'instabilità del mercato del lavoro crea una contrazione dell'offerta di lavoro che, a sua volta, genera disoccupazione ed impedisce una pur minima programmazione del futuro: "mi rinnoveranno il contratto?", "quando troverò un altro impiego?" e mille altre domande simili assillano i precari.
Tutto questo, poi, finisce con intaccare la capacità economica del lavoratore, che si vede costretto a tirare la classica cinghia, in fatto di spese personali e ad accontentarsi di quel che passa il convento: per necessità, infatti, il precario è, spesso, costretto ad accettare impieghi molto al di sotto delle sue qualifiche ed economicamente poco remunerativi.
Non è un caso che, con queste caratteristiche, sia stata identificata la famosa e famigerata generazione mille euro. Il precario finisce, così, in balia degli eventi e l'unica scelta che ha è o accettare il lavoro alle condizioni imposte o restare disoccupato. Una scelta che, in realtà, non esiste.
Ora, dato che il mercato del lavoro italiano, attualmente, è altamente instabile (crisi economica, disoccupazione in salita, delocalizzazione, tassazione e burocrazia asfissianti, ecc.), la flessibilità sfocia, inevitabilmente, nel precariato.
Per impedirlo, servirebbero degli accorgimenti, utili per garantire ai lavoratori la possibilità di pianificare la loro vita lavorativa: il salario minimo, per stabilire una netta distinzione tra stipendio minimo e sfruttamento; il reddito di cittadinanza, per garantire un sussidio, tra un lavoro e l'altro; un sistema di formazione continua, che permetta al lavoratore di accrescere le sue competenze; sfoltire la giungla di contratti esistenti oggi, lasciandone attive poche fattispecie.
Infine, servirebbe una forma di contratto a lungo termine (il tempo indeterminato), per permettere al lavoratore di avere le spalle coperte, una base solida, su cui, poi, costruire il suo futuro e, inoltre, di non partire da una posizione svantaggiata, in sede di contrattazione di nuovo posto di lavoro.
Tutto questo, ci è stato promesso e ripromesso, da vent'anni a questa parte, ad ogni nuova riforma del lavoro – Renzi e il suo Jobs Act sono stati solo gli ultimi, in ordine di tempo -, ma, ancora, non abbiamo visto nè reddito di cittadinanza, nè formazione continua, nè nient'altro di simile.
Ecco perchè, in Italia, quelli che possono veramente scegliere fra flessibile e precario si contano sulle dita di una mano: troppo pochi per permettere la Paese di risollevarsi e per garantirne lo sviluppo futuro.
Danilo