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Siamo quasi a Star Trek! Ma anche no

Creato il 13 agosto 2010 da Giuseppemanuelbrescia

Siamo quasi a Star Trek! Ma anche no.Girovagando su Paperblog (che mi ha recentemente invitato a condividere i miei post, quindi mi trovate anche lì), mi sono imbattuto su un blog chiamato Flabbertech, che annuncia entusiasta che “il traduttore simultaneo è quasi realtà”. Cita Star Trek, e ci fa quella che nelle intenzioni doveva di certo essere una domanda retorica:

Avete mai sognato o anche solo sperato di poter comunicare con tutte le persone del mondo senza dover conoscere le varie lingue ma potendo semplicemente parlare con la vostra lingua madre?

Ad essere onesti, proprio per niente. Al massimo ho sognato o sperato di poter imparare trenta o mille lingue, quello sì. Soprattutto perché se non conoscessi una determinata lingua, mi mancherebbe uno strumento fondamentale per poter capire la cultura che la parla. E la conversazione avrebbe un che di beckettiano, immagino. Va benissimo essere nerd, va benissimo sognare Star Trek (avevo tutta la serie classica in videocassetta, sia chiaro, e, sì, sarebbe bello avere un replicatore che mi faccia delle pappardelle coi porcini freschi quaggiù in Australia) però quando si parla della realtà cerchiamo di tenerne a mente la complessità, per piacere. Troppa gente sembra ancora completamente ignara del fatto che le lingue non siano codici equivalenti ed intercambiabili. Da un lato me ne faccio una ragione, dall’altro ritengo sia doveroso fare il possibile per diffondere la consapevolezza di cosa sia la lingua, e di quanto la frase “in principio era il verbo” abbia un significato alquanto letterale.

In ogni caso, tralasciando la natura della lingua e sul suo rapporto inscindibile con la cultura a cui appartiene, vediamo un attimo: funziona, questo coso? Siamo davvero a Star Trek, e non me n’ero accorto? C’è anche un video che spiega il funzionamento del gingillo:

Siamo quasi a Star Trek! Ma anche no.

Al di là del suggestivo accostamento al Capitano Kirk e al suo eroico equipaggio, non mi sembra tutto ‘sto granché. Guardando il video scopriamo che si sta testando il programma su 25 situazioni che i soldati americani potrebbero incontrare in Afghanistan, e nei commenti invece veniamo a sapere che ci vogliono 4-5 secondi per tradurre 10 parole. Insomma, non sembra poi questa meraviglia. Soprattutto quando si pensa ai costi che simili progetti comportano. Tecnologia avanzatissima, certo, ma visti i risultati, ce n’è davvero bisogno? Brian Weiss, membro dell’equipe che sta conducendo i test, nel video (al minuto 2:20) dice

sfortunatamente c’è carenza di interpreti, carenza di interpreti molto affidabili, e la traduzione automatica rappresenta una risorsa unica, soprattutto considerato che le macchine non si stancano, le persone sì.

Vi presento Capitan Ovvio. Per rispondere a tono, vogliamo dire che le persone interpretano – in senso lato, quindi sanno valutare e dare un senso ai messaggi, non solo verbali – e le macchine no? Un interprete in carne ed ossa sarà innanzitutto più rapido e molto più accurato. Secondo, avrà dalla sua la conoscenza e la comprensione della cultura “altra”. Infine, potrà interagire con le persone utilizzando non solo questo suo bagaglio culturale, ma anche quell’8o% della comunicazione che risulta essere di natura non-verbale. E i capoccia dell’intelligence dovrebbero sapere che questi non sono dettagli. O almeno, un cittadino medio, la cui sicurezza, a quanto ci dicono, è nelle loro mani, lo spererebbe.

Weiss ha probabilmente ragione quando si lamenta che gli interpreti sono pochi, e immagino che pochissimi professionisti vorranno partire per l’Afghanistan o l’Iraq e andare in pattuglia coi Marines. E allora che si peschi fra i ranghi militari e si investa nella formazione. In molti scelgono la carriera militare per poter studiare, si offrano incentivi a chi sceglie la via delle lingue e dell’interpretariato.

Un po’ di ricerca e scopro su Cellular News che il progetto si chiama TRANSTAC, e che si sta lavorando sul pashtu, sul dari e sull’arabo iracheno. Ci si aspetterebbe chissà cosa, invece il succo è sempre il solito brodo riscaldato:

Tutti i nuovi sistemi TRANSTAC  funzionano in pratica nello stesso modo, dice il project manager Craig Schlenoff. Si parla inglese ad un telefono. Il programma di riconoscimento vocale distingue quel che dice e genera un file di testo che il software traduce nella lingua d’arrivo. La tecnologia di sintesi vocale converte il testo così ottenuto in una risposta orale nella lingua straniera. E si usa il processo inverso per chi parla una lingua straniera.

Ma stiamo scherzando? C’è il problema dell’affidabilità del riconoscimento vocale (disturbi, ma soprattutto dialetti e idioletti, ad esempio), e poi, viste le magagne dei traduttori automatici, non sarei troppo sicuro della traduzione da testo a testo. La sintesi è l’unico segmento che, salvo disastri, sembra affidabile. Davvero si preferisce questa baracconata alla formazione di “interpreti di guerra” in carne ed ossa?

Pare di sì. Il problema della malatraduzione in teatri di guerra, fra l’altro, è stato affrontato da Emily Apter nel suo The Translation Zone. Scopriamo così che già in Bosnia e in Iraq i soldati si sono affidati a simili tecnologie, ma che

i risultati si sono dimostrati inaffidabili, e nel peggiore dei casi fatalmente scorretti.

Sempre nel saggio di Emily Apter compare anche una citazione di un articolo del New York Times del 2003, nel quale, a proposito degli aspetti linguistici delle operazioni di intelligence, Edward Luttwak accenna a come

”Per essere un agente dell’intelligence devi essere un poeta,” he continued. ”Devi flirtare e sedurre. Devi essere in grado di imparare l’urdu in sei mesi.” Dolorosamente a corto di capacità linguistiche, molti agenti dell’intelligence americana “non sanno nemmeno ordinare un caffè.”

Andiamo bene. Non è difficile immaginare che genere di informazioni possa raccogliere un’organizzazione che non sembra avere la più pallida idea di quanto sia importante la competenza linguistica. Tanto che, invece di istituire nuovi programmi in grado di formare agenti che conoscano a fondo la lingua e la cultura della zona di guerra, si preferisce giocare a Spock e Kirk con improbabili e costosissimi gadget che difficilmente potranno mai sostituire l’intelligenza umana. A me sembra tanta fuffa.

FOTO: Communicator vs. iPhone, di Lee Bennett (Flickr)


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