Magazine Cultura
Akron, Ohio. Capitale mondiale della gomma, come viene definita dai suoi abitanti con un pizzico di orgoglio masochista (“Già all’inizio degli anni Settanta era una città fantasma, prossima alla morte”, mi confessa candidamente Jerry Casale). Un’ambientazione perfetta per una delle band più geniali e innovative della storia del rock che, da una condizione geografica così depressa e svantaggiosa, è partita alla conquista degli Stati Uniti e del resto del mondo. Dopo aver pubblicato un paio di dischi capolavoro come Q: Are we not men? A: We are Devo e Duty now for the future e aver raggiunto il successo al botteghino con Freedom of choice nei primi anni Ottanta, i Devo hanno vissuto un declino artistico e commerciale che li ha portati a una sorta di pensionamento dorato, fatto di qualche altro album e di un primo scioglimento. Da parecchi anni a questa parte la band (i due fratelli Mothersbaugh, Mark e Bob I, e i due Casale, Jerry e Bob II. Alla batteria siede Josh Freese, il session man più famoso dell’alternative rock americano) è attiva solo in sede live, attività piuttosto remunerativa in questi tempi di costanti reunion (ovviamente non era stato ancora pubblicato l'album di inediti Something for everybody del 2010, nda). Per la prima volta dopo quasi due decenni i Devo sono in Europa per un tour che tocca l’Italia per due date. Per Bergamo abbiamo organizzato tutto, intervista e photo session con la famosa tuta e il cappello a vaso di fiori, ma come spesso succede le cose non vanno per il verso giusto. Il manager è incazzato nero, nel pomeriggio è saltata la corrente un paio di volte e lui minaccia di annullare il concerto, figurarsi la nostra intervista. Nonostante il nervosismo che si percepisce nel backstage del Lazzaretto, splendida location bergamasca, i Devo sembrano godersi quella che pare una vacanza. Bob Casale viaggia con moglie e figli, due ragazzini magrissimi e super nerd con magliette dei Megadeth, Mark pare uno scienziato pazzo dei film di fantascienza, gli altri si fermano a parlare con chiunque capiti a tiro. Jerry, tutto fasciato da un completo viola che gli dona un’aria elegantissima, si scusa per gli inconvenienti e ne approfitta per sciorinarmi la sua lista di ristoranti italiani preferiti, manco lavorasse per la Guida Michelin. Tra un consiglio culinario e l’altro - lui (americano) a me (italiano), roba da non credere… - il discorso si sposta proprio su Akron, da cui tutti loro sono emigrati anni fa: “Negli anni Settanta, tutti vestivano con jeans a zampa d’elefante, magliette psichedeliche, portavano i capelli lunghi, fumavano erba e guidavano i furgoncini Ford. Beh, poi c’eravamo noi che apparivamo ai concerti con le tute gialle e lì scoppiavano i casini, forse gli ricordavamo le fabbriche che tanto odiavano”. Già le tute… gli mostro la mia, quella che indosserò per le foto, e lui si mette a ridere, ma evidentemente è abituato al culto selvaggio che accompagna la sua band, tanto più che con loro viaggia Michael Pilmer, presidente del Club Devo, uno che passa gran parte della sua giornata a coordinare iniziative legate al loro nome, tra cover band, party a tema, scambio di materiale raro e il sito web. Un pazzo, insomma, con cui mi trovo immediatamente a mio agio. La tutona gialla dei Devo, uno dei travestimenti di scena più scomodi e caldi che si possa immaginare, ma anche uno dei più geniali, è passato alla storia e diventato icona della musica rock. “Quando abbiamo trovato quelle tute in una fabbrica abbiamo capito che la loro valenza visiva era proprio ciò che stavamo cercando, ci davano un aspetto immediatamente riconoscibile e, al tempo stesso, ci facevano apparire come degli alieni piovuti dal futuro. Avevamo un’educazione universitaria, eravamo studenti di cinema o d’arte e quindi con un certo background culturale, appassionati di dadaismo e pop art, ma adoravamo mischiare l’alto con il basso, incorporare elementi che appartenevano alla cultura di serie B americana: la fantascienza anni Cinquanta, i film da drive-in, l’horror, la letteratura pulp e, di rimando, il rock’n’roll più trasgressivo. Da queste influenze abbiamo tratto il sound dei Devo, lavorandoci sopra per anni in totale isolamento e solitudine, senza che nessuno fosse minimamente interessato a noi, se non per picchiarci (ride)”. La presenza minacciosa del manager impedisce di approfondire troppo, ma con grande pazienza degli organizzatori e un po’ di buon senso riusciamo almeno a ottenere cinque minuti per il servizio fotografico, salvando almeno in parte la serata. I Devo fanno un concerto strepitoso ed è già ora di partire alla volta di Azzano Decimo, a qualche chilometro da Pordenone, per la seconda tappa. Alle quattro di pomeriggio del giorno dopo ritrovo la band e riprendo da dove avevo interrotto la sera prima. Jerry mi invita a entrare nella stanza dove sta sistemando giudiziosamente le tute e i cappelli per il concerto. Gli dico che pare quasi lo spogliatoio di una squadra di calcio e mi guarda divertito. Forse dovevo dire football o baseball… Ad ogni modo siamo qui per parlare della sua band e mi tolgo la curiosità di domandargli la storia che sta dietro al loro primo leggendario album, Q: Are we not men?…, pietra miliare del punk e del rock degli anni Settanta, quello con la cover de-evoluta di Satisfaction degli Stones. “Bob Mothersbaugh era andato a un concerto di Iggy Pop a Cleveland, il tour di The idiot con David Bowie alle tastiere. Alla fine del concerto avvicinò proprio Bowie per dargli un demo dei Devo, ma lui lo buttò via senza nemmeno ascoltarlo. Per fortuna Iggy recuperò il nastro e ne rimase affascinato, costringendo David a sentirlo. Nove mesi più tardi, mentre eravamo in California per un breve tour, lo stesso Iggy si presentò a un nostro show dichiarando che i Devo erano la sua band preferita del momento e che Bowie voleva produrci un disco. Poi, una serie di impegni ritardò la nostra collaborazione e così finimmo, su suo suggerimento, per contattare Brian Eno, il quale pagò di tasca sua le registrazioni del nostro debutto, prima ancora che avessimo un contratto discografico. Non volevamo aspettare altro tempo, avevamo il materiale pronto e perfetto per essere inciso, tutte le altre band contemporanee a noi avevano giù un disco fuori. Per fortuna andò così e il risultato, molto immodestamente, credo abbia passato indenne il test del tempo”. Per anni si è vociferato di grosse ingerenze di Eno proprio in fase di produzione, anche e soprattutto se si comparano i primi demo del gruppo, lenti e robotici, e il materiale pubblicato sull’album. Casale non si scompone per nulla: “Vuoi sapere la verità? Il nostro suono è maturato quando abbiamo scoperto il punk, lì abbiamo capito che serviva inglobare anche quell’energia per rendere il nostro materiale unico. Brian Eno non c’entra proprio nulla ”. A dispetto di un’immagine giocosa e di una certa leggerezza di fondo, i Devo sono una band che non è sbagliato definire politicizzata o quantomeno molto attenta ai cambiamenti sociali. La loro celebre teoria della de-evoluzione, secondo cui l’uomo sarebbe destinato a un’involuzione morale e culturale, fino a tornare alla condizone di scimmia, pare essersi sinistramente avverata, almeno stando a vedere quanto succede nel mondo e, specialmente, nel loro paese di origine. “In questi ultimi anni, gli Stati Uniti sono diventati una nazione orribile, guidata da un imbecille pericoloso che ha sempre la risposta sbagliata a ogni domanda. Prendi un argomento a caso e te lo dimostro: politica estera? Un disastro. Politica ambientale? Uno sfacelo, e via di questo passo. George W. Bush è un cristiano fondamentalista, per me è identico a Osama Bin Laden, non ci sono differenze, credimi. La de-evoluzione era partita come un gioco, una battuta, ora si sta dimostrando reale e non so se ridere o piangere…”. Mentre Jerry continua giudiziosamente a sistemare le tute gialle, tagliandole sul retro in modo che sia semplice strapparle durante Uncontrollable urge, gli chiedo di raccontarmi ancora qualcosa, magari un episodio curioso legato proprio al loro travestimento più conosciuto. Scoppia a ridere e mi guarda pensoso: “Nel 1978 ci invitarono a Londra per tre concerti, eravamo il nome nuovo della scena punk, così ci ritrovammo in Inghilterra. Il primo giorno, alla Roundhouse, erano riuniti tutti i giornalisti delle maggiori testate musicali britanniche e il New Musical Express ci propose un servizio fotografico con i nostri costumi. Ci caricarono su un furgone e ci portarono nell’East End, a quell’epoca una zona disastrata e pericolosa di Londra. Appena scesi dall’auto cominciammo a camminare in giro con movenze robotiche mentre il fotografo scattava. Non ci eravamo accorti di essere davanti a una scuola media e che i ragazzini in cortile ci stavano osservando. A un certo punto, uno di loro partì a tutta velocità verso di noi e tirò un calcio fortissimo sugli stinchi di mio fratello Bob, il quale cominciò a urlare parolacce rivolte al ragazzino e a inseguirlo zoppicando. Lui, per tutta risposta, si voltò verso i suoi amici e gli disse: ‘Avete visto? Avevo ragione io! Non sono dei robot!’”. Al ricordo, Jerry ricomincia a sogghignare ed esce dalla stanza. “Ci vediamo dopo, vado a chiedere a Bob se si ricorda…”.
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