Il capitale non è una cosa ma un rapporto sociale. Sociale dunque e non solo di produzione. Esso si riproduce nelle sue forme specifiche a tutti i livelli collettivi determinando la supremazia di una determinata formazione portatrice di precisi ed esclusivi rapporti, i quali le garantiscono la massima funzionalità ed affermazione su altre configurazioni umane che infine si marginalizzano, scompaiono o vengono assimilate. Questo significa che quando i vari attori si ritrovano nel processo produttivo, all’interno di una fabbrica o, meglio di una impresa, il rapporto che informerà le loro azioni/interazioni – attraverso la combinazione dei fattori produttivi, macchine, materie, forza lavoro, secondo una data razionalità strumentale (minimo sforzo, massimo profitto) e gerarchie che non dipendono dal mero comando del capitalista (divisione tecnica del lavoro) ma dall’oggettività intrinseca degli stessi processi – è già bello che formato. E da questo rapporto non si esce per sabotaggio o complotto proletario come pensavano molti rivoluzionari della chiacchiera negli anni ’60-’70, i quali pretendevano di allargare il controllo operaio dalle ciminiere ai camini, dalla fabbrica alla società per mera estensione ideologica. Dalla ciminiere sono riusciti a portare buona parte degli individui suggestionabili della “classe” direttamente al cimitero, mentre loro hanno continuato a bere calici di teorie edulcorate e editorialmente redditizie comodamente seduti nei loro celebrati salotti. Né, pertanto, si combatte il capitalismo cimentandosi contro le sue manifestazioni fenomeniche o le sue apparizioni finanziarie. Quest’ultime sono certamente reali ma di una realtà rovesciata o proiettata in maniera distorta, come Marx ha spiegato abilmente, tant’è che, ad esempio, si può ben sostenere che sul mercato agiscono soggetti parificati giuridicamente i quali vendono e comprano quel che serve loro (merce, prodotti e forza lavoro), in perfetta uguaglianza di fronte alla legge. L’imprenditore che acquista forza lavoro la pagherà al suo valore così come il lavoratore che aliena le proprie prestazioni riceverà l’appropriato, tuttavia all’interno della produzione agirà automaticamente quel rapporto, storicamente concretatosi, che permetterà al capitalista di estorcere pluslavoro nella forma di plusvalore senza dover obbligare nessuno a sgobbare con la spada in pugno. Questo lo dice direttamente Marx: “[sul mercato] vengono scambiati equivalenti, cioè la merce vien pagata al suo valore [al suo valore!!!]. Il cambiamento può derivare dunque soltanto dal valore d’uso della merce come tale, cioè dal suo consumo”. Ovvero, è soltanto nel processo produttivo di consumo della forza lavoro che opera la disuguaglianza reale a causa della quale il lavoratore è condizionato ad erogare forza-lavoro oltre il prezzo ricevuto sul mercato, a vantaggio del capitalista che si appropria gratuitamente di un pluslavoro. Possiamo chiamare questa grande scoperta di Marx, l’uguaglianza formale sul mercato che cela la disuguaglianza di fatto nella produzione, I disvelamento scientifico dei rapporti “a dominanza” del capitale. Esso ha tolto la pelle al capitalismo sul suo lato produttivo e riproduttivo nella sfera economico-sociale, permettendo di osservare meglio il suo concreto funzionamento al di là delle fantasmagorie della merce e del mercato. Ma tutto ciò non è stato sufficiente a spiegare la dinamica del capitale a livello sociale generale. Per questo La Grassa, proseguendo secondo lo stesso rigore scientifico marxiano, ha proposto il II disvelamento che invece ‘impone di mettere senza più esitazioni al centro dell’analisi il principio della “razionalità” strategica, applicata al conflitto in quella che è la politica tout court, ovunque venga svolta: nella sfera politica vera e propria, in quella economica, in quella ideologico-culturale. Tale politica si condensa nei vari “macrocorpi” (Stato e apparati politici, imprese, ecc.) che diventano gli “attori” della battaglia nel campo del suo svolgimento, i portatori soggettivi di dinamiche conflittuali oggettive; non colte in sé ma sempre interpretate con ipotesi che nascono dalle teorie formulate all’uopo (e sempre riviste e ri-formulate di epoca in epoca). Il conflitto (strategico), “essenza” della politica, pur essendosi esteso – durante il passaggio al capitalismo, cioè alla sua prima formazione sociale, quella borghese – alla sfera economica, non fa di quest’ultima quella ormai predominante e da cui tutte le altre dipenderebbero (deterministicamente o con “azione di ritorno”, che è un semplice “meccanicismo incrociato”, una mera interazione)’. Si tratta di una vera rivoluzione teorica che ci consente di uscire dall’impasse in cui eravamo finiti dopo la non concretazione delle previsioni marxiane circa la formazione del lavoratore collettivo cooperativo associato, il quale avrebbe estromesso dalla produzione rentier e parassiti della finanza ormai disinteressati dei processi produttivi ed arroccati nella sovrastruttura statale a difesa dei propri appannaggi simil-feudali. Sappiamo che le cose sono andate diversamente e non si poteva più restare ancorati alla vecchia concezione, in attesa dell’ apparizione celeste di un soggetto rivoluzionario che mai sarebbe sorto dalle contraddizioni del capitale. Detto ciò, ora ci troviamo ancora a scontrarci con molti fantasmi che ci portano fuori strada e ci distolgono da questo obiettivo principale, l’analisi del conflitto strategico e le sue precipitazioni sociali, per incantarci con favole umanistiche sulla comunità gaudenti o i racconti orrorifici sullo sterco del demonio che vuol comprare le nostre anime. Per non cedere a questi richiami rassicuranti ma distruttivi a causa dei quali si sbatte immancabilmente su scogli utopistici dobbiamo necessariamente fissare alcune coordinate teoriche. Quest’ultime ci sono date dalle elaborazioni lagrassiane e le riprendo tal quali dalle sue recenti “Puntualizzazioni teoriche” così come le avevo presentate sul blog in precedenza. Innanzitutto occorre fissare gli elementi generali dell’analisi che possono essere così articolati: “Le epoche (e fasi) storiche riguardano complessi raggruppamenti sociali (società, formazioni sociali), di cui isolare i gruppi che appaiono essere i decisori d’ultima istanza nel comportamento attivo di maggiore rilevanza, in quanto portatori del movimento in questione, in genere di carattere evolutivo cioè trasformativo delle loro strutture relazioni interne(…). Diciamo che i gruppi decisori sono, in generale, i soggetti (…) L’oggetto in generale è costituito dai raggruppamenti sociali complessivi (…) cioè delle formazioni sociali in generale, (…), il mezzo in generale per l’azione dei soggetti sull’oggetto è la lotta per la supremazia, lotta che assume forme estremamente variabili, ed il cui carattere di mutevolezza costituisce appunto l’aspetto generale “della lotta condotta dagli individui della nostra specie”. Così, è proprio lo squilibrio, in quanto astrazione di questa mutevolezza inarrestabile delle forme di conflitto, che costituisce l’elemento più generale delle società umane. L’equilibrio, quello che viene percepito dai sensi come l’ottimo cui la società tende quasi spontaneamente, è solo l’apparenza che prende il davanti della scenografia, proprio come il mercato, guidato dalla mano invisibile e dalle sue fantasmagoriche regole consolidatrici (“La vita è dunque lotta, conflitto per prevalere. Questo l’aspetto più superficiale, il corrispondente della concorrenza mercantile nell’ambito della produzione condotta secondo le modalità tipiche vigenti nella formazione sociale detta capitalistica”). Questa ipotesi è necessaria per orientarsi nello squilibrio incessante del reale, al fine di stabilizzare il campo in cui l’azione dei soggetti deve svolgersi ed articolarsi. La Grassa individua due mezzi di stabilizzazione del reale: la teoria e l’istituzionalizzazione, con la creazione di apparati retti da regole di comportamento dei corpi sociali in attività, sempre secondo una scala gerarchica. Tuttavia, tanto la prima che i secondi “tendono, per forza d’inerzia, alla conservazione dell’esistente; quindi si trasformano presto in strumenti di quest’ultima. Esse vengono addirittura rafforzate con successive ‘aggiunte’. Gli Istituti e apparati esistenti vengono specialmente difesi da apparati di coercizione e repressione di ogni tentativo di modificazione, tentativo compiuto per adeguarli allo squilibrio incessante che ha condotto verso altri assetti dei rapporti sociali. D’altra parte, l’adeguamento toglierebbe il potere ai gruppi decisori della ‘realtà’ precedente e lo assegnerebbe a nuovi gruppi. La teoria crea una cintura (o, forse meglio, nervatura) ideologica per obnubilare la coscienza dell’inevitabile corrosione cui è sottoposta la sua rappresentazione strutturale della realtà da parte del flusso di spinte squilibranti; essa cerca così, testardamente, di attestarsi sui vecchi supposti equilibri”. Questo proposta scientifica disegna un quadro della realtà, con un “doppio livello”, assolutamente inedito, del quale dobbiamo prendere coscienza (flusso squilibrante) al fine della conoscenza del nostro mondo (sistema sociale), tentando d’incidere, partendo proprio dalla pratica teorica, sui suoi pilastri. Se lo squilibrio costituisce lo sfondo o il fondo della vita associata, la costruzione di una nuova scienza sociale deve principiare dal conflitto generato da quello squilibrio, “dalle teorie come costruzione di campi di stabilità per combatterlo, dalle strategie quale mezzo principale di tale combattimento”. Dunque, non si ha conoscenza del flusso del reale ma soltanto, e per gradi di riflessione via via più intensi, dei campi stabilizzati ma conflittuali in cui i soggetti portatori delle strategie si trovano a confrontarsi/scontrarsi. Soltanto con strumenti teorici adatti si può costruire, e per via d’approssimazione, tale realtà stabilizzata “che serva da campo delle nostre pratiche”. Adesso, partendo da questi presupposti per noi dirimenti non possiamo che essere distanti anni luce da quel parterre filosofico e ideologico che propugna salti logici e grandi narrazioni per creare intorno a sé facile consenso e ancor più facili guadagni. Icaro adesso vola ma presto stramazzerà al suolo colpendo i suoi illusi icariani. Non sposeremo mai le campagne pubblicitarie ingannevoli di chi, per accrescere la propria platea e ricevere applausi, continua a sostenere che siamo in presenza di un dominio delle oligarchie finanziarie transnazionali sulla sovranità statale, popolare e nazionale (Costanzo Preve) o che occorre tornare all’etica della comunità pauperistica e decrescista per respingere il dominio della tecnica e lo sviluppismo deantropomorfizzante. Non abbiamo nulla a che spartire con chi pensa di poter sovvertire il mondo con nuove teorie sedicentemente avverse al finanziarismo che vedono nella sovranità monetaria la panacea per tutti i mali sociali (Barnard) o con narrazioni ancora più bislacche che individuano nel signoraggio il buco nero della fase storica. Con costoro non abbiamo niente da condividere, i nostri percorsi sono diversi perché a noi piace stare con i piedi per terra, camminare con passi brevi ma sicuri, mentre loro preferiscono i voli pindarici ed i salti a piè pari da un concetto all’altro, da una chimera alla successiva. A loro lasciamo la letteratura, la fantasia e i grandi sogni, noi ci teniamo tutta la durezza del mondo reale e le difficoltà del suo discernimento. Ognuno scelga, secondo coscienza, da che parte stare ma non ci costringa a dialogare con gli spettri. Siamo uomini non trapassati.
“Va…sempre ricordato: il capitale è un rapporto sociale e non una cosa. Il capitale non è semplice produzione: né reale né puramente monetaria (e quindi finanziaria). Il capitale è una forma dei rapporti sociali tra gli individui che configura nel contempo anche una particolare relazione tra gli elementi generali della produzione (gli elementi della “produzione in generale”). Il capitale, insomma, è una “storicamente determinata” formazione sociale, con un suo peculiare modo di produzione, che non significa modalità tecnico-organizzative del processo trasformativo degli oggetti in forma usabile per soddisfare i bisogni. Il modo di produrre è sociale; si produce solo riproducendo contestualmente i rapporti sociali nel cui ambito si produce”. G. la Grassa