Ieri sera sono andata a teatro, uno di quei teatri piccoli, neanche cento posti, come a Roma ce ne sono tanti. Uno di quei teatri dove il pubblico della prima fila può quasi toccare gli attori in scena, ne sente il fiato, potrebbe arrivargli addosso qualche goccia di sudore. O di saliva.
Quando la gente è entrata in sala, già alcuni attori si muovevano sulla scena. La storia poteva essere liberamente tratta da “La Peste” di Camus, opportunamente riveduta, corretta e trasposta ai giorni nostri, con un che di fantascientifico, un’atmosfera da day-after che trasmetteva il giusto senso di angoscia. Ma anche no. Gli attori in scena erano trentadue, tra cui il mio amico che mi aveva molto carinamente invitata, bravissimo devo dire, sebbene per lavoro faccia l’avvocato (anche un’aula di tribunale può essere un gran bel palcoscenico, no?). Ho trovato convincenti anche tutti gli altri attori, due ore di spettacolo incentrato sulla Morte e senza intervallo avrebbero potuto tramortire anche il più clemente dei critici. Non c’era neppure una poltrona libera, non era neppure la prima e ho saputo dal mio amico che tutti i quindici giorni di programmazione sono stati sold out, con grande soddisfazione del regista e della compagnia tutta. Azzeccati anche i costumi e le musiche. Insomma uno spettacolo che non avrebbe sfigurato in tanti teatri blasonati del centro, dove talvolta vado a vedere certe cose che faccio fatica, e tanta, a tenere gli occhi aperti. E per le quali si paga un biglietto con un prezzo esagerato.
Mentre tornavo a casa, sotto una pioggia tropicale (a Roma si gira ancora in canottierina e sandali, il tasso di umidità è quasi pari a quello di Bangkok e a me va benissimo così. Odio fare il cambio del guardaroba estivo verso quello invernale!), ho pensato a tutta quella compagnia che impegna il proprio tempo, le proprie energie, sacrificando magari famiglie, ore di sonno, palestra, discoteca, fidanzati e altro, per provare e riprovare le battute in qualche scantinato o in qualche sala parrocchiale. Poi tira fuori cose meravigliose. E allora quel tempo, quelle energie, quei sacrifici (ma si può parlare di sacrifici quando c’è di mezzo la passione?) non sono stati vani e inutili. Quelle ore a provare toni di voce, scene, luci, costumi, pettinature, sono servite a regalare al pubblico quel qualcosa di straordinario che non solo il Teatro può dare. E allora ho pensato a quanti cantanti, ballerini, scrittori ma anche pittori pieni di talento mi capita di incontrare. Gente che si impegna, affina la propria arte, la cura amorevolmente, suda, ci mette tutta sé stessa, sacrifica tutto il proprio sacrificabile, magari investe pure dei soldi per la sua passione. Sempre più spesso mi capita di incontrare scrittori sconosciuti che hanno il non comune dono del saper scrivere. In un teatro dove vado spesso dove il biglietto costa quanto una pizza e una birra, eppure ha velluti rossi e poltrone comodissime non mi è mai capitato di vedere nulla di noioso/sciatto/malfatto/banale.
Eppure questi talentuosi attori, registi, sceneggiatori, scrittori, poeti e artisti in genere non hanno nomi celebri, a loro non vengono riservati gli onori della critica, i salamelecchi di certi agenti, la piaggeria di un certo giornalismo. I biglietti per le loro performance teatrali costano un terzo di uno spettacolo al Sistina o alla Sala Umberto, non vengono intervistati a Domenica In e, probabilmente, non li vedremo mai in alcun talk show, né sulle copertine dei magazine o, tantomeno, sulla passerella di Cannes o Venezia. E, nel caso di scrittori/poeti che hanno pubblicato con dignitosissime piccole o medie case editrici, senza alcun contributo economico elargito, se in libreria chiediamo un loro libro, il commesso ci guarderà con aria interrogativa e consulterà il computer, per poi rispondere magari che gli dispiace ma “non trattiamo questa casa editrice”.
Ecco, a me questa cosa fa rabbia. Mi si potrà obiettare che da che mondo è mondo è sempre stato così, che chi la dura la vince, che la Storia della Letteratura mondiale e anche del Teatro e dell’Arte in genere è piena di talenti incompresi, che magari poi quando vengono compresi, non tireranno più fuori le genialate di quando erano esordienti, che poi diventano come quegli spocchiosi Mostri Sacri che non hanno più nulla da raccontare al pubblico, che la maggior parte dei famosi sono nati nei teatrini off, hanno mosso i primi passi su palcoscenici underground (parecchio…under), che sì, insomma, l’Arte non paga, l’offerta supera di gran lunga la domanda (pensiamo ai libri e…singhiozziamo di dolore!) e che la gavetta è necessaria.
Io però trovo ugualmente che sia un’ingiustizia e forse anche un’offesa all’ Arte, di qualsiasi genere essa sia, che la gente, il cittadino medio, il pubblico, cerchi sempre certezze, la sicurezza di un cast, di un regista o di uno scrittore già noto e ami poco sperimentare e guardarsi intorno, perdendosi così delle vere chicche. Capisco anche che, in tempi di crisi, il budget destinato alla Cultura e all’ intrattenimento, quando c’è, venga indirizzato dall’ italiano medio verso qualcosa a rischio zero. Peccato però, mi piacerebbe che osassimo di più, che ci informassimo di più, prima di scegliere un teatro/libro/disco solo in base alla notorietà.
E quindi mi preme dirvi tre cose:
lo spettacolo che ho visto ieri sera nel delizioso Teatro Arvalia è “Epì-Dèmia Epì-Dèmos”, il mio amico attore nonché avvocato è Valentino Pucciarelli, ieri sera straordinario Barabba (anche un perfetto Claudio quando interpreta alcune letture del mio “Epistolario erotico tra due internauti sconosciuti”) e che il teatro dove vado spesso ormai da qualche anno è il Teatro Nino Manfredi di Ostia.
E anche un’altra cosa voglio dirvi. Non accontentatevi del nome del teatro solo perché ci andavano i vostri zii lo scorso secolo o perché vi ci avevano portato in gita alle scuole medie. E né di quelle tre o quattro case editrici imperanti. L’Italia è piena di teatri e anche di curatissime case editrici con collane deliziose. Andate a curiosare, sperimentate, buttatevi. Potreste avere piacevolissime sorprese.