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SIC – “In Territorio Nemico”: Adele in fabbrica

Creato il 16 maggio 2013 da Viadeiserpenti @viadeiserpenti

SIC – “In Territorio Nemico”: Adele in fabbrica

Pubblichiamo, per gentile concessione degli amici di SIC – Scrittura Industriale Collettiva, un estratto dal romanzo In territorio nemico, appena uscito per minimum fax.

 

***

Durante la pausa per il pranzo si metteva in un angolo, con la schiscetta, e cercava di incrociare lo sguardo di qualcuna. Sarebbe dovuto bastare, pensava, il fatto che tutte come lei si alzavano che era ancora buio, in una casa fredda, vuota di uomini, e si trascinavano al banco. Tutte tornavano nella casa vuota o riempita dalle urla di un bambino, tutte si addormentavano sperando di non sentire la sirena. Sarebbe dovuto bastare, ma non era così. Lo sentiva nelle battute che si scambiavano, negli sguardi che le lanciavano quelle all’apparenza più gentili, sguardi che volevano sembrare di comprensione ma erano di compatimento. Il terzo giorno si rese conto che le si erano narcotizzate le narici, assuefatte all’odore del petrolio. Ne erano impregnati non solo il grembiule ormai, ma i suoi abiti e a nulla sarebbe valso, quella sera, metterli fuori dalla finestra. Si sentiva bruciare la gola, ma quando si decise a chiedere alla vicina dov’era l’acqua, in un momento di assenza della sorvegliante, quella bofonchiò:
«L’è meglio sôspénd minga de lavôrà, lenta come sei. Sta nel barile, là».
«Ehi cinciapèta!», la zittì un’altra operaia, pettoruta e piccola di statura. «La sciura se la pôdrìa pôrtà da casa l’acqua, col thermos!»
Poi quella stessa operaia si mise in mezzo al corridoio, scimmiottò l’andatura della sorvegliante e ne imitò la cantilena:
«Tì, uì! Se non la smetti, de piantà gran, dôman te podet stà a cà tua! Che scì, ghe né foeura più de cent che veuren vegnì a la Olap a laurà, te capì?»
Le operaie ridevano. Anche quella a sinistra di Adele rise, scoprendo più di un dente mancante. Quando si rimisero a capo basso le parlò di nuovo:
«Num avem el beviroeu, com i vacche! Dénter lì, l’acqua l’è fresca solo la prima mezz’ora, poeu diventa ôna pissa».
Adele restò interdetta; arrossì e riportò l’attenzione sulle altre: alcune si scambiavano commenti sussurrati, ma le più stavano zitte e lavoravano spedite. Si vergognava delle proprie mani, curate, morbide, mentre attorno vedeva mani screpolate e rosse, con le unghie rotte. I componenti da assemblare si accumulavano alla sua sinistra, col risultato che Alma alla sua destra non riceveva abbastanza rifornimenti ed era costretta a fare parte del suo lavoro per non bloccare la catena.
Le fece vedere di nuovo come fare. Adele sentiva una vampa continua di vergogna.
«Alùra, te ghe de fioei?», chiese Alma, dimentica del silenzio con cui Adele aveva risposto alla stessa domanda quando erano in coda per il pane, e intanto le mostrava come inserire i fili negli spinotti.
«Io? No».
«Mi ghe n’ho cinch: Lino, Liliana, Franco, Ivano, Riccardo».
«Piacerebbe anche a me averne, ma…»
«No, no, son d’acordi côn tì, l’è minga el môment de mètei al mônd, ma prima o poeu, ’sta guera la sarà finida».
«Sono già tre anni che dicono che sta per finire».
«Damm chì el nastro isolant!», urlò l’anziana di destra verso il fondo del tavolo.
«Quella è Mariangela. L’ha sempre pagura de vess ripresa dalla sorvegliante o che un quai vun slenguascia de lei», disse l’operaia. «Purina, l’è vedua e la gha du fioei. Nera e Benito. La se mangerà i man».
«Perché?»
«I nomi. Ti, quand te avrai un fioeu, com tel ciamaré?»
«Non ci ho mai pensato».
«El to marì che mestè el fa?»
«Lavorava come progettista di aeromobili».
«Ah, caspita. Perché dici “lavorava”? L’è stàa licenziàa?»
«Non so dove sia».
Il passaggio della sorvegliante le zittì. Andava e veniva, allungava la testa sopra le loro spalle, dava un’occhiata all’orologio fissato con un cavo al soffitto. Quella volta si fermò:
«Neanche ôna uperaria la va foeura de chì», gridò a tutta la sala, «fintant che non è terminàa il lotto trentacinque! E vu, Giavazzi, chi te se credet di essere? L’è tut el dì che ve guardi: vu sii sôltant ôna lavativa».
Rovistò nella sua scatola degli attrezzi, la richiuse, poi disse:
«Dov’è?»
«Cosa?»
«Lo spinott!»
«Scusate, ma non capisco».
«L’è sparì ôn spinott! Basta minga ves ’na lavativa, anca sgraffignona!»
«Vi sbagliate. Io non ho rubato niente».
«Non mi contraddire! Vu sii sôltant ’na rompascatol. Dôman ve podet anche non venire!»
Le agitò la scatola sotto il naso. Adele indietreggiò, si sentì girare la testa. Intervenne qualcuno, la sorvegliante si distrasse e a un certo punto le apparve uno spinotto tra le mani. Quando Adele si riebbe, l’incidente era chiuso e tutte lavoravano in silenzio.
Tornata a casa, riviveva ininterrottamente le azioni del giorno; solo quando si assopiva in poltrona, o a volte ancora seduta al tavolo della cena, la sua mente riusciva a scacciarle e si riallacciava alla memoria della vita precedente: si rivedeva in un giorno di aprile, a passeggio, in una strada illuminata dal sole. Aveva un rossetto leggero sulle labbra e un nuovo cappello con un fiore color lavanda. Camminava sottobraccio ad Aldo e si sentiva morbida e luminosa come quella luce di primavera. Si vedeva passare accanto al tavolo del soggiorno apparecchiato con le tazzine del servizio, la tovaglia di pizzo con i tovaglioli abbinati. Squillava un campanello: le mogli dei colleghi di Aldo stavano arrivando: «Buonasera, signora Giavazzi». Era contenta, ma stanca…
Giorno dopo giorno, continuava a invidiare la destrezza delle compagne, ma faceva qualche progresso, pian piano assimilava i trucchi con cui riuscivano a risparmiare tempo o a prendersi un attimo di respiro senza bloccare la produzione. Lei cercava di lasciarsi condurre dalla meccanica dei gesti, ma le sue mani inesperte ancora non tenevano il ritmo.
«Giavazzi! Cosa te fée, lavativa? Te capì, la sciura… Questa chi se varda le unghie inveci de laurà! Quand l’è finì el turno, avant de andà a casa, te làvet el paviment, bela sciura».
«Fagh minga cas, oramai te avré capì che la fà inscì», le disse Alma sottovoce. Adele ricambiò con un sorriso.
«Magari l’è nanca cativa côme la par ves. L’è ’l so mestè».
«Già», rispose Adele, «è il suo mestiere».
Si aggrappava all’idea che si sarebbe abituata alla ripetizione dei gesti e alla stanchezza permanente. L’abitudine le avrebbe permesso di sottrarsi all’invasione dei ricordi, sperava, ma il paragone con la sua vita passata si faceva sempre più stridente. Cercava di calcolare il livello di stanchezza e abbattimento delle altre operaie, di tutte quelle donne appesantite, indistinguibili nei camici logori. Le osservava cercando di immaginare quale fosse la loro storia e rivedendosi in ciascuna. Come era passata da essere la principessa di casa, viziata e adorata dal marito, all’anonimato di una divisa lercia? La sirena di fine turno interrompeva i suoi pensieri. Usciva, salutava velocemente alcune altre lavoranti, tornava a casa, mangiava le poche cose che aveva, cadeva sul letto e subito si addormentava.
Una volta si svegliò in piena notte con il ricordo vivido del sogno che aveva fatto: una donna sulla spiaggia di Sicilia con un foulard in testa, che la guardava e rideva di lei.


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