Sembra che l’argomento di questa settimana di blog, il leit motiv, sia il remake. Ma non solo, dopo Oldboy, l’idea è anche mettere in evidenza l’ipocrisia di fondo, o l’incertezza (che genera dubbio), che permea la regia del cinema occidentale odierno.
[contiene anticipazioni]
Esempio lampante di remake e di “pudore registico” è Silent House (2011), che vanta una doppia regia, di Chris Kentis e Laura Lau. E che è un remake di La Casa Muda (2010), di Gustavo Hernandez.
Guarda caso, anche in Silent House, la protagonista (come per il remake di Oldboy a cura di Spike Lee) è Elizabeth Olsen.
Corsi e ricorsi storici. O semplice, per quanto inquietante, sincronia.
Elizabeth Olsen (Photo credit: Gage Skidmore)
E lasciatemi dire che è un peccato, per Elizabeth Olsen, l’unica delle sorelle che vale la pena seguire al cinema, la reputo un’ottima attrice. Solo che si sta condannando da sé, con scelte poco felici.
Ed è un peccato anche per il film, che poteva essere grandioso.
Cos’è Silent House? È un rifacimento, all’occidentale, di un film occidentale, ma sudamericano, ovvero troppo spagnoleggiante per interessare il pigro pubblico americano, che vuole vedere solo facce belle, bionde e rassicuranti. Cosa che la Olsen è.
Io dico che Elizabeth Olsen (sì, kill me) è pure brava, perché il film si regge, fino a quando regge, solo sulle sue spalle. Provate a vederla in La Fuga di Martha e poi ditemi se non è in gamba.
Anni fa per un film come Silent House ci sarei andato pazzo. Un po’ radical chic, ambiziosetto quanto basta, che affronta temi scabrosi con il doppio fine di: intrattenere, come intrattiene la tragedia a teatro, e di educare, ovvero far riflettere lo spettatore reattivo.
Poi ho capito che la narrativa (sì, anche quella cinematografica), dei radical chic non sa cosa farsene; la narrativa si giova di (e pretende) simboli (pur non rinunciando al messaggio), personaggi che siano icone, facilmente identificabili e riproducibili nel minor numero di mosse. Un esempio che vale per tutti. Freddy Krueger. Al quale si risale tramite semplici associazioni mentali: guanto, artigli, sogno, incubo, maglione rosso, cappello.
Possiamo fare altrettanto con Sarah, l’anonima protagonista di Silent House, che ha il volto di Lizzie Olsen? No. Perché è anonima. In altre parole, non possiede la forza del simbolo.
Ecco perché di Nightmare se ne discuterà anche fra cent’anni, e di questo film non se n’è parlato più, una settimana dopo (a essere ottimisti) l’uscita nelle sale.
In ogni caso, Silent House sfrutta temi classici del cinema horror:
a) casa abbandonata
b) fantasmi
Per poi dirci che no, non è vero niente. I fantasmi ci sono sì, ma sono solo nella mente di Sarah, che è una povera pazza.
Pazza perché cela nella sua mente un passato di abusi familiari della peggior specie.
E quindi abbiamo la seconda parte che invece è strutturata su:
d) incesto
e) violenza
g) vendetta
L’aspetto che ha fatto nascere questo ragionamento è la recente (ri)visione di Oldboy.
I temi sono più o meno gli stessi, mi riferisco a quelli più estremi e scabrosi. Silent House ha una natura duplice, parte come una ghost story e si chiude come un rape & revenge. Laddove la parte Rape è relegata nel profondo passato e nella giovanissima età della protagonista.
La differenza tra cinema occidentale e orientale è tutta nella gestione di questi stessi temi limite, chiamiamoli così.
Ovvero, Oldboy (oltre ad avere un protagonista icona: capelli spettinati, aria stravolta, martello, denti, polpo vivo mangiato a morsi) mostra il peggio di sé, senza girarci intorno, senza ipocrisie. Accompagnando lo spettatore di rivelazione in rivelazione.
Silent House vuole mostrare il peggio di sé, ma senza mostrarlo, fondamentalmente, piuttosto lasciandolo intuire, ma mai ammettendo in maniera esplicita l’argomento.Oppure deviandolo con scene di violenza assortita, che però evadono dal trauma in sé e dal tema trattato.
Equivale a parlare di una questione importante senza mai fare riferimento alla stessa, girandoci intorno, perché… non so, è difficile parlare di certe cose, persino rischioso.
E sono d’accordo. Assolutamente. Sul fatto che incesto e pedofilia siano argomenti difficili da trattare. Anzi, quasi impossibili, nonostante il primo, ovvero l’incesto, sia stato ormai sdoganato quasi fosse un simpatico passatempo privo di rischi da Game of Thrones.
Ma se si è deciso di farlo, di scrivere un’opera che tratti di questi temi orribili, allora lo si deve fare, senza tabù. Senza preoccuparsi delle reazioni del pubblico, se possa o meno uscirne scioccato dalla visione.
Se si costruisce una storia sul dolore e sul trauma di una ragazza vittima di anni di abusi da parte di padre e zio, è dovere dell’autore trasmettere allo spettatore tutto il peso e l’orrore di quegli abusi.
E, attenzione, non mostrando scene esplicite che non avrebbero senso e farebbe schifo girarle (si rischierebbe persino l’effetto contrario, quello di richiamare a frotte i maniaci), ma trasmettendo tutta la follia e la vergogna che da tali azioni aberranti discendono.
Impresa mica da poco, ve lo concedo.
In questo modo, la vendetta finale che avviene in Silent House – pur essendo una catarsi incompleta, in quanto la mente della protagonista è ormai troppo devastata per capire appieno il valore e le conseguenze delle proprie azioni – avrebbe assunto tutt’altra dimensione tragica. Epica, quasi. E staremmo qui a parlare di un film durissimo, ma che ci ha trasmesso qualcosa. Ci ha fatto incazzare, reagire, ci ha devastato.
Dimensione tragica che Silent House, che gioca al contrario alle contaminazioni di genere, smarrendosi dietro di esse, non possiede.
Possiede invece la dimensione del compitino fatto da due studentelli di cinema, che rimestano nell’orrore reale e mettono su uno spettacolino di poco conto e per nulla incisivo.
E questo perché la regia non ha avuto il manico di parlare seriamente di quelle cose orribili.
Ed è una caratteristica sempre più comune al brutto e grigio cinema occidentale (che tuttavia ancora vanta eccezioni, sempre aventi la Olsen per protagonista, ovvero il già citato La Fuga di Martha). Che sempre più si fa dominare dai giudizi esterni. Primi fra i dominati sono i produttori, che lavorano preoccupandosi più di evitare grane con le associazioni in difesa di questo e quell’altro fronte, che della qualità del prodotto che stanno finanziando.
Per cui si preferiscono toni ammorbiditi, lasciare intuire a una platea che ormai non intuisce più nulla le sfumature più scottanti, che spesso al contrario vengono fraintese, e che, per citarne una delle più recenti, attribuisce profondità e sensibilità a un film d’intrattenimento piatto come l’elettroencefalogramma di un cadavere: Hunger Games 2.