Non mi riesce più d’ascoltarmi in silenzio
e non è più silenzio nel caotico assordante
ondulare della peristalsi dell’anima.
I borborigmi senza sosta, affilati
ricordi che si rigirano tra le piaghe
aperte del vissuto.
Non abbandonarmi – dicevo a me stesso -
non abbandonarmi, prima d’avermi abitato.
Ma allora c’era ancora il silenzio
e lo squarcio magnanimo della luce
invernale; c’era il mantra del mare
in risacca; c’era il merlo scansafatiche,
mio animale totemico, col suo volo
radente e l’inconfutabile dialettica.
Chissà se l’occhiocotto abbia mai sognato
di potersi risvegliare capinera!
L’hibiscus sarebbe altrettanto fecondo,
se non avesse coscienza della caducità
della sua fioritura? E il melograno,
darebbe il sorriso effimero ai suoi frutti,
non sapendo la corruzione incombente?
(Laggiù si dice, malaugurio
all’impertinente che ride spudorato:
s’arrisu ‘e s’arenara, il riso della melagrana).
Ed Eros chiazzato d’arancio
brunastro, il setter irlandese dall’ampio
torace, l’incredibile Eros che articolava
il suo verso in umani fonemi, Eros
che metteva in castigo il malaticcio
suo parente inglese, vendicando
secolari soprusi dell’uomo
sull’uomo.
Mi erano tutti compagni
e me ne sentivo compreso.
Alieno, ma nella vivida fede
che, aldilà dell’umano,
potessi appartenere
al mondo indecifrato,
come i sagaci animali rilkiani
che non si fidano dei didascalici
attori che siamo.