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Sabato 9 febbraio 2013
CAMMINARSI DENTRO (455): Silenzio, si chiude
Rimediare alla solitudine assoluta della vecchiaia è possibile, a condizione che si disponga di occasioni per agire ancora disinteressatamente, per mantenere aperte relazioni sociali produttive e utili, qualora non si disponga di occasioni per agire economicamente, produttivamente, utilmente.
La beata solitudine, sola beatitudine, sbandierata come tale dai filosofi di professione, cessa di essere ‘ritiro spirituale’ e porto di quiete quando intervengano i problemi materiali ad assediare l’esistenza. Allora si scopre un altro genere di solitudine, che uccide più di mille nemici: il silenzio.
Anche quando si sia appresa la lezione dell’amore, che non ha senso chiedere ciò che non arriva come risposta spontanea, e quando si sia appresa la lezione del potere, che senza protezione si è esposti a tutti i venti e non esistono diritti da rivendicare, resta ancora in piedi l’illusione che qualcuno ci aiuterà, se rischiamo di sprofondare in una solitudine ancora più grande, quando non potremo provvedere a noi stessi. L’ultima illusione, prima di soccombere sotto i colpi della sorte, è che ci sia ancora qualcosa da fare per salvarsi. Magari ci affanneremo, anche per anni, a rimediare agli errori commessi, cercando di espiare le colpe piccole e grandi accumulate qua e là. C’è, tuttavia, chi non ci perdonerà mai i nostri errori. Intere zone della realtà, per questo, sono ostruite. L’accesso a noi è interdetto. Ritrovarsi davanti a un ‘funzionario’ di questa o quella realtà pubblica o privata e leggere nell’espressione impersonale e fredda del viso la volontà di non darci risposte costituisce l’ennesima verifica del silenzio intervenuto a ridefinire ampie porzioni dello spazio della nostra esistenza.
C’è stato un tempo in cui eravamo ‘comunisti’, come ci fu detto bruscamente prima ancora di esserlo politicamente, perché convinti che si dovessero affrontare, e risolvere, tutti i problemi dei poveri e delle categorie sociali deboli. Per questo, fummo costretti ad abbandonare la Chiesa prima, poi il Partito e il Sindacato, riservandoci, in ultimo, con il Volontariato, un modo di fare politica, cioè di servire gli altri, che credevamo al riparo dalle passioni tristi, soprattutto dall’invidia.
Siamo partiti più di venti anni fa con mancati riconoscimenti, con un lavoro oscuro, che niente chiedeva per sé, durato dieci anni almeno, quando un riconoscimento ufficiale è arrivato. Dopo altri dieci anni, siamo qui a misurare in mesi il silenzio che ormai ci avvolge.
Subito dopo la seconda guerra mondiale, in Francia, si verificò un episodio non rilevante dal punto di vista storico, ma significativo per noi: la rivista Combat, organo ufficiale della Resistenza francese, per ragioni economiche e di direzione, decise di chiudere i battenti. Senza clamore, fu pubblicato un ultimo numero che si apriva con l’Editoriale Silenzio, si chiude. Oltre al silenzio dei ‘fratelli’, il Centro di ascolto Libera Mente si ritrova a fare i conti con un fenomeno inedito, dopo 20 anni di lavoro educativo nel campo della tossicodipendenza: non ci sono più ragazzi, non vengono più persone a chiedere aiuto. La tentazione di ‘chiudere’ senza aggiungere altro è grande. Gli ostacoli incontrati sul cammino non sono mai venuti dai ragazzi, solo in pochi casi dalle loro famiglie. Come ebbe a dire all’inizio della nostra avventura un Fondatore di Comunità nostro amico: «Io ho paura della gente normale, non dei ragazzi affetti da tossicodipendenza!»
Il privilegio della cultura, oggi, aiuta a misurare la forza dell’ignoranza e l’influenza estesa di chi puntella il potere gratuitamente, anche quando dal potere riceva solo danno. Il potere più grande, tuttavia, non è quello politico, ormai corrotto nel midollo, ma quello del silenzio. Ritrovare nelle persone più semplici o in coloro che lungamente sono stati riguardati a torto come ‘fratelli’ – e magari ci chiamano oggi solo Colleghi – la capacità di escludere ancora con il silenzio, semplicemente con il silenzio, è comico e tragico ad un tempo. Interrogarsi sulle ragioni del fenomeno senza interpellare le scienze dell’anima è tempo perso: la presenza significativa nelle grandi realtà educative, nei luoghi nevralgici dell’organizzazione, di individui propensi all’invidia e all’esercizio del potere allo scopo di escludere per non patire a causa della propria modestia culturale e della propria inettitudine, è sufficiente per inceppare il ‘meccanismo’ generale, creando ‘strozzature’ che finiscono per strozzare chi ci lavora disinteressatamente, per di più, senza insidiare il potere di nessuno. Aver rivendicato per anni un riconoscimento pieno che non è mai arrivato rende ‘residuale’ ormai il rapporto ‘fraterno’ con tutti gli altri membri dell’organizzazione. Il destino delle ‘chiese’ è sempre lo stesso: funzionano come strutture ‘monarchiche’, con un potere assoluto, che accoglie solo per cooptazione dall’alto. In esse ha senso solo dare in silenzio, senza poter mai rivendicare alcunché. In questo modo, le ingiustizie si perpetuano per anni, anche per decenni, fino a quando chi non è disposto più a un destino di emarginazione crescente non decide di rispondere con il silenzio al potere distruttivo di chi ha esercitato efficacemente il proprio potere con il silenzio, per uccidere.
Continuare a lavorare per chi è rimasto, per il gruppo delle famiglie soprattutto, è doveroso e sollecita a trovare altre risposte, soprattutto a cercare altrove occasioni ulteriori per buttare via la propria vita, quando ci si alza al mattino. Sicuramente, si aggiornerà l’offerta, se i tempi sono cambiati e un ciclo si è esaurito. ‘Crisi’ significa proprio questo: il vecchio ordine è morto, per fare posto a un nuovo ordine. Crisi è trasformazione, cambiamento, passaggio da forma a forma. Accade, nel bel mezzo delle crisi, di scoprire che non è sempre valido l’adagio secondo il quale ci si salva insieme. A volte, per salvarsi, bisogna darsi alla fuga, abbandonare in silenzio la sala centrale dove si festeggia qualcosa che non ci appartiene più, perché il padrone di casa si è dimenticato non solo di fare gli onori di casa, ma addirittura di rinnovarci l’invito a partecipare alla festa.