Magazine Cinema
Ci sono dei film che adori fin dal primo impatto perché sono bellissimi, ma non come amanti passeggeri, ma come piccole chimere che ti porti dentro a lungo.
E' difficile spiegare perché "Sils Maria", l'ultima magnifica opera di Olivier Assayas presentata a Cannes, mi abbia commosso così profondamente. Da quel clamoroso inizio in treno, dove la rete è ostacolata dalle gallerie, dove le notizie del mondo - e il materiale narrativo stesso - vengono direttamente da un cellulare, dove l'elemento umano funge solo da mediatore. Ma sarà quello stesso mediatore, nel corso del film, a riprendersi il suo centro, a tornare finalmente vero protagonista almeno nel suo mondo.
Immergendo pienamente i suoi personaggi in una realtà fluida invasa da tabloid, social network e gossip capricciosi, Assayas non si arrende alla distanza della rete, ma ricerca l'umanità tra le pieghe del racconto, ricostruisce, fin dalle fondamenta, un cinema che si apre ai turbinii del cuore, agli improvvisi, quasi impercettibili, moti d'animo, alle piccole rivelazioni di una sera passata a ridere e ad amare.
Intanto un serpente di nubi s'insinua tra le montagne accompagnato dal Canone di Pachelbel che sembra irradiare lo schermo. Si respira aria a polmoni pieni e le immagini della Binoche che ride, piange, corre, gioca e dunque recita sono un tacito richiamo ai primi amori folli (di cinefilo ardore). Perché non è tutto "Sils Maria" un film in dissolvenza? L'intero mondo che circonda il personaggio della Binoche, persone, cose e film stessi, non scompaiono senza poterle concedere un ultimo sguardo? Ogni cosa è un apparizione fugace, il sogno di una notte in cui si era un po' sbronzi e troppo (poco) felici. E non è la recitazione (che sia il teatro o il cinema, non ha importanza) il modo per potersi riappropriare di quello sguardo mancato, di quell'abbraccio così agognato e per sempre negato?
Nel suo rifiutare qualsiasi sentimentalismo, Assayas, dopo il personalissimo finale metacinematografico dello straordinario "Après Mai", intelaia un film di doppi speculari, dove le parole di un copione sono quelle di una verità più profonda, sempre latente. E' la finzione che svela la verità, è la recitazione stessa a connotarsi come dispositivo terapeutico e metaforico.
Alla fine rimane il vento, rimangono le nubi, ma soprattutto rimane un volto.
Cinema autentico allo stato puro, da amare incondizionatamente (e Juliette Binoche, è inutile dirlo e proprio per questo lo dico, rimane una donna incredibile).
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