Amiche mie (Mondadori) è un romanzo di Silvia Ballestra, un’ode all’amicizia più vera, quella in grado di salvarti la vita nei momenti di difficoltà. Le donne protagoniste del libro, Norma, Vera, Sofia e Carla, sono diverse, hanno problemi differenti e rapporti problematici col mondo, ma hanno in comune la loro amicizia e la capacità di confrontarsi, riuscendo a venir fuori da situazioni alquanto complicate. Ogni mattina per loro è un rito il caffè dopo aver lasciato i figli a scuola. Qui si incontrano, riflettono, si confrontano, si salvano. Norma è reduce da una separazione non voluta e vissuta malissimo; Sofia ha maturato un’ossessione per il cibo che la porta a scaricare sui pasti le sue molteplici nevrosi; Carla soffre per il suo stato di precaria, oppressa da una relazione problematica con il marito (il quale, giusto per aggiungere pepe alla situazione, è brillante in campo lavorativo) e dal fatto di ritrovarsi nella trappola della “casalinghitudine”; infine Vera, la breadwinner di un nucleo familiare in cui il marito ha perso il lavoro. Sarà proprio lui, rovinato dal gioco d’azzardo, a sparigliare le carte morendo improvvisamente, una notte, sul divano di casa. Un decesso per cause naturali, come sostiene Norma? Un suicidio, come crede Carla? Oppure un caso di avvelenamento con del cibo contaminato, come sospetta Sofia? O ancora semplicemente la triste fine di un uomo consumato silenziosamente dai suoi demoni e dalla crisi, come invece pensa la stessa Vera? Questo è l’epilogo di un racconto che parte dell’esistenza di tutti i giorni, in una Milano senza bellezza, senza sogni, in piena crisi. Una Milano grigia, come nell’immaginario comune.
«Era lunedì e l’attimo dopo era già venerdì, le bambine l’indomani non andavano a scuola, ma solo la domenica sarebbero riuscite a dormire un po’ di più, essendo il sabato una giornata in cui ancora si percepiva che la città comunque, tutt’attorno, si svegliava e animava», dice la Ballestra, e parla di lunedì qualunque di settimane qualunque, scanditi da lavoro, fatica, ansia e figli. E soprattutto parla di sopravvivere, inventando quattro donne, che potrebbero essere le nostre amiche, che potrebbero essere quelle quattro signore che abbiamo lasciato al bar due minuti fa, che… potremmo essere noi. Sono eroine del quotidiano, mai raccontate o studiate, che si aprono a noi, mostrandoci pregi e difetti, le loro paure e la loro forza, senza smettere di sorprenderci neanche per un attimo. Risulta difficile risalire ad una trama, perché è un racconto di giorni semplici, di ore scandite dalla quotidianità, dalle vecchie e solite abitudini. Un racconto che porta alla “redenzione”, se di redenzione si può parlare, il cui senso sembra racchiuso tutto in questo passaggio: «Le sembrerebbe anche ipocrita continuare a dolersi per la cosa terribile che le è successa. Dolersi; naturalmente il dolore rimarrà. Ma bisognerà anche fare un po’ come se non ci fosse». Fare come se non ci fosse e continuare a vivere. Questo è, probabilmente, uno degli insegnamenti più grandi del romanzo della Ballestra. La lingua è semplice, pulita, quasi scabra. Delle volte profonda, ricercata e gentile. Proprio come le protagoniste del volume. Silvia Ballestra, tramite il suo libro, vuole mostrare quanto sia importante realizzare una solidarietà femminile che diventi strumento di emancipazione, in un mondo sempre più maschilista, che relega la donna a determinati ruoli fissi, che qui vengono scardinati con eleganza e raffinatezza.