Del tema ne ha accennato, molto in breve, la scorsa domenica, monsignor Ravasi nella sua rubrica “Breviario”, appuntamento fisso con i lettori del noto quotidiano economico ,che in quel giorno di festa dedica un intero supplemento alla cultura con la”C” maiuscola.
E, come sempre, il nostro “homo doctus” ha centrato, per direttissima, il bersaglio.
Simon Weil , per la quale non credo occorrano presentazioni, parlando d’amore del prossimo, con un consiglio tratto dal suo “Attesa di Dio”, lascia scritto : “La pienezza dell’ amore del prossimo è semplicemente l’essere capaci di chiedergli : qual è il tuo tormento? ”.
E poi non aggiunge altro.
Contro lo spreco di “paroloni” di tanta retorica laica e clericale, allo scopo di non riproporre scialbi e superflui stereotipi,se intendiamo “dare amore”, sottolinea Ravasi in rubrica, facendo eco alla Weil, occorre, allora, lo sforzo di una grande attenzione da dedicare, sempre e comunque, al nostro interlocutore.
Chiunque sia.
Infatti, è più che evidente, anche se spesso non lo è per tutti, che saper ascoltare è molto più importante del suo contrario.
E cioè dell’essere noi a investire l’altro di un fiume di suggerimenti non richiesti.
Sarebbe in questo caso ,come ha scritto con tagliente ironia un altro “grande della cultura”,il drammaturgo e pensatore austriaco, Karl Kraus, avere la bocca piena e il cuore vuoto.
E allora, aggiungo io, attenzione quando parliamo di Africa, di terzo-quarto mondo o delle povertà in generale e , inoltre,di tutta quella paccottiglia, che si potrebbe definire la “retorica” degli aiuti, e che serve solo a tacitare, temporaneamente, le coscienze.
Rispondere a un’emergenza è importante, direi doveroso, specie se siamo in grado di farlo, ma non è ancora quello che si può definire amore.
Amore verso il prossimo, rileggendo bene la Weil, come fa e ci propone di fare, a nostra volta, monsignor Ravasi, è complicità, consonanza, sintonia dell’anima.
Possiamo sinceramente dire di provare noi tutto questo dinanzi all’immigrato, allo zingaro, al malato, che incontriamo sul nostro cammino, e ciò anche quando ci mostriamo disponibili ad andargli incontro in quelle che possono essere i suoi probabili problemi?
Da qui nascono le tante difficoltà dell’essere capaci d’amare sul serio l’altro. Quale che sia la provenienza e/o la condizione umana e sociale.
Ma perché così non sia, allora, che fare?
Bisogna, necessariamente e assolutamente, imparare a fare esercizio d’amore. Senza stancarsi mai.
Questo è il suggerimento implicito di Simon Weil.
Una specie di ginnastica del cuore. Senza pensare ogni volta, paghi di un risultato, di avere già fatto abbastanza.
Occorre, insomma, abbandonare le trappole dell’egoismo e del profitto. E sapersi mettere in gioco, prendendo a modello una sola persona, un “unico” uomo.
Quello di Nazareth. Il figlio del falegname Giuseppe e di Maria .Quello per cui “tutto è grazia”.
E provare , magari, a fare propria la “sua” di logica.
Come?
Gli apostoli, Paolo di Tarso,l'ebreo convertito e il "primo" missionario dopo Gesù, e altri, ci hanno lasciato di che fare memoria e riflettere.
Simon Weil, credendo al sogno d’amore di Dio e pagando un prezzo alto, c’è riuscita .
Ciò significa, senza per forza di cose essere eroi, che non è impossibile.
E che utopia umana e progetto di Dio possono congiungersi, perché si possa giungere, ciascuno per la propria strada, ad amare i fratelli sul serio.
E ,a testimoniarlo, questo amore.
Persino ai nostri giorni che, all’apparenza, parrebbero piuttosto sconfessare ogni cosa.
a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)