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Simonetta Cesaroni uccisa da più persone. Lo dimostrano i diversi tipi di sangue trovati nell’ufficio e i due dna sconosciuti sul reggiseno

Creato il 03 aprile 2012 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

Simonetta Cesaroni uccisa da più persone. Lo dimostrano i diversi tipi di sangue trovati nell’ufficio e i due dna sconosciuti sul reggisenodi Massimo Prati. Il giallo della morte di Simonetta Cesaroni non conosce fine e verità. Come in un film che si rispetti dal sette agosto 1990 si susseguono ininterrottamente colpi di scena e scenari diversi. Così abbiamo avuto a disposizione una serie infinita di assassini su cui puntare il dito, tanto che a forza di sentir gridare “al lupo al lupo” ora non sappiamo più se chi viene indagato sia un lupo o un barboncino. La storiaccia inizia in un pomeriggio scaldato dal Sole romano. Il complesso residenziale di via Poma è costituito da sei condomini che hanno in comune un bel cortile, alberato e fresco, in cui si staglia una fontana. Ad ogni condominio corrisponde un “portiere”, di quello B dal 1986 se ne occupa Pietro Vanacore. Quel pomeriggio la Cesaroni parte di casa alle quindici ed arriva sulle sedici, entra salendo le scale B e va al terzo piano, negli uffici della AIAG, dove dovrà terminare poche pratiche prima di andare in ferie. Ha un accordo con un suo datore di lavoro, Salvatore Volponi, alle 18.20 (strano orario) lo chiamerà al telefono della tabaccheria, che lui gestisce assieme alla moglie, per dirgli a che punto è il lavoro. Da giugno frequenta quello stabile, il primo mese assieme a un tutor che le insegnava ad usare il computer, e sa che è immerso nella tranquillità. Nella stessa scala abita l’architetto che ha progettato tutta la struttura residenziale, Cesare Valle, che ha ottant’anni e necessita di un aiuto, aiuto fornitogli dal portiere che chiama al telefono.

C’è da dire che pur se tranquillo il condominio non è nuovo a fatti di cronaca nera, nel 1984 una signora benestante fu uccisa, soffocata con un cuscino, in un appartamento della stessa scala B. Per questo delitto nessuno fu perseguito penalmente in quanto le indagini non riuscirono a trovare appigli a cui aggrapparsi (strano no?). Ma torniamo al sette agosto del novanta. Alle sedici, quindi quasi in contemporanea con l’entrata di Simonetta Cesaroni (era sola?), i portieri di tutti gli stabili si siedono sulle panchine a ridosso della fontana e, fra una chiacchierata ed un bicchiere di vino, mangiano anguria. Resteranno in quella posizione ininterrottamente per quattro ore, fino alle venti. Nessuno entra, dicono in coro, dato che in agosto quasi tutti i proprietari sono in ferie, e l’unico a non essere rimasto costantemente alla fontana è il Vanacore, allontanatosi all’incirca fra le 17.30 e le 18.30. Cala la sera e nascono le paure della famiglia Cesaroni. Simonetta non è rientrata e nessuno sa come rintracciarla, neppure il Volponi ha il numero di telefono di quell’ufficio, anzi non sa neppure di preciso dove sia (?). Passano le ore e la sorella decide di andare a controllare, alle 23.30 entreranno in quelle stanze di via Poma: la sorella, il suo fidanzato, Salvatore Volponi e suo figlio.La scena è da film horror. La ragazza è stesa sul pavimento, stracolma di coltellate e sangue, con la maglietta arrotolata al collo, il reggiseno abbassato a mostrare parte dei capezzoli. Mancano gli altri abiti ed anche le mutandine. L’allarme parte immediatamente ed immediatamente ci saranno sbagli da parte di chi deve indagare e di chi deve far perizie. Un agente di polizia la notte stessa si siederà sulla poltrona occupata quel pomeriggio da Simonetta e disegnerà su un foglio una sorta di margherita, scrivendovi sopra: CE-Dead ok. Per un anno si crederà essere un appunto della ragazza e si cercheranno riscontri e piste investigative. Poi tocca al patologo sbagliare dimenticando di analizzare alcune ferite, una in particolare sul pube non verrà controllata anche se diversa dalle altre perché ad Y, e di verificare la presenza di eventuale saliva su un seno dato che, scrive: “si riscontra la presenza di un morso”. Ma una volta partite le indagini, agli errori non fa caso nessuno, il tutto è in fondo molto semplice visto che l’unico ad essere salito per le scale è il portinaio, Pietro Vanacore.Ed il Vanacore sarà il primo ad essere arrestato e ad andare in carcere. Questo nonostante vi sia la certezza che in quel giorno, ed anche nei due successivi, abbia indossato gli stessi abiti e sopra non vi siano tracce ematiche riconducibili ad un delitto perpretato con una simile efferatezza. Ma ci sono tre particolari che insospettiscono e convincono gli inquirenti: c’è uno scontrino delle 17.25 rilasciatogli da una ferramenta, in cui è andato ad acquistare un frullino, c’è un orario discordante in quanto lui dice di essere salito ad aiutare l’architetto Valle alle 22.30, mentre l’anziano ricorda di averlo fatto entrare in casa sua alle 23.00, e ci sono tracce di sangue lavato sul cavallo di due dei suoi pantaloni… il problema è che il portinaio soffre di “emorroidi”, che il sangue è suo e non si va in galera solo perché si hanno le emorroidi. Il giudice è d’accordo su questo e dopo ventisei giorni di carcere, e titoloni inneggianti al mostro, il Vanacore viene liberato. Realmente, però, non uscirà mai dalla scena del crimine perché, se pur è vero che non ha ucciso, alcune telefonate strane, ed in realtà poco spiegabili, lo renderanno sospettabile per quanto accaduto dopo il delitto. Insomma, forse il Vanacore sapeva e non voleva o non poteva parlare. Ed il suo suicidio (stranissimo), avvenuto a vent’anni dal delitto e proprio a ridosso della data in cui doveva testimoniare a processo, ha lasciato su di lui tutti i dubbi intatti… e non solo su di lui.Ma il Vanacore non è stato l’unico ad essere implicato, ad un certo punto si inseriscono gli “infiltrati” amici degli 007 italiani e tutto trova altre dimensioni. Per cui a turno entrano nuovi indagati. Uno è il nipote dell’architetto Valle, Federico, che si dice abbia passato quel pomeriggio dal nonno ed abbia una cicatrice su una mano, cicatrice procuratasi il giorno dell’assassinio. Però tutto cade perché l’informazione l’ha fornita un truffatore amico di alcuni agenti deviati. Ma niente paura, ce ne sono altre di strade. Così trovano spazio la pista del videotel, un antenato di internet, la pista del Sismi (segreti di Stato nel computer) e degli affiliati alla banda della Magliana (c’era un nascondiglio in zona ed una sorta di labirinto da cui entrare nel condominio). Insomma, come si è soliti fare quando non si vuole far nulla, è bastato allargare il raggio di azione in maniera esponenziale per rendere il tutto un groviera in cui i buchi erano perfette vie di fuga. Ma dal 2004 cambiano i Pm e tutto ritorna al senso originale. E grazie a loro, ed ai periti della procura, tutto il quadro accusatorio si incastra che è una meraviglia attorno a Raniero Brusco, ex fidanzato della Cesaroni. C’è il morso, che cinque consulenti della procura (dico e ripeto cinque non uno) dichiarano combaciante perfettamente alla dentatura dell’indagato, ci sono tracce di sangue che riportano 8 alelli di dna compatibili al suo, c’è il suo dna, e solo il suo, sul reggiseno.Ed a contorno a queste verità ci sono gli indizi e manca il verbale da lui firmato in cui vi era l’alibi che aveva dato al momento dell’omicidio (era stato controllato e verificato per buono?). Nel 2005, quindi, gli richiedono di fornirne uno buono. Ma i ricordi dopo quindici anni non possono essere perfetti, le carte servono a questo, e se queste mancano anche l’alibi manca, perché quanto gli pareva di aver detto non trova più conferme. Per di più c’è la testimonianza della moglie del Vanacore che ha visto, dopo le otto di quella sera, un uomo alto come il Brusco uscire dalla scala B con un fagotto in spalla (gli abiti mancanti intrisi di sangue?), da lei non riconosciuto nell’imputato ma in uno dei proprietari (però pare che questi fosse in Turchia quel giorno). Insomma c’è tutto per arrivare ad una condanna, poco importa se son passati vent’anni e se si dirà che il tempo trascorso non aiuta la verità. Ed infatti al processo di primo grado il Raniero Brusco viene condannato. I denti del morso sono i suoi, lo dimostrano le perizie, il dna sul reggiseno è suo ed altro non ce n’é, quindi solo lui può aver ucciso la ex fidanzata. Poco importa se ci sono testimoni che smentiscono altri testimoni, se si capisce che qualche persona non l’ha raccontata giusta al tempo e andrebbe indagata, se ci sono due tracce di sangue di cui non si può parlare perché di un gruppo incompatibile con quello dell’imputato, una sulla porta ed una sul telefono. Il morso ed il dna sul reggiseno lo incastra e tanto basta a rendere giusta la condanna.Ma dopo il primo grado si arriva al processo d’appello, è sempre così, processo in cui la Difesa chiede nuove perizie perché, a parer suo, quelli del Ris ed i periti della procura hanno lavorato male che più male non si può (o, questo lo dico io però è più probabile, con attrezzature inidonee perché vecchiotte). Il Presidente della Corte d’Appello accetta di rifarne quattro ed a questo punto in aula si scatena l’inferno perché l’avvocato della parte civile, della madre di Simonetta Cesaroni, rinuncia al suo incarico per protestare in quanto l’accettare le nuove perizie, a parer suo, equivale a mettere in dubbio l’operato del Ris e la professionalità dei periziatori della procura (quasi fossero il Dio in Terra e non esseri umani). Non è che, data la sua lunghissima esperienza (manca poco e si ritirerà dalla professione), in cuor suo sapeva che nuovi riscontri avrebbero potuto scagionare l’imputato? Non lo sapremo mai, sappiamo però che nonostante la sua assenza il processo è andato avanti e, fra alti e bassi, si è arrivati al 27 marzo, quando in aula sono sfilati i periti di Corte incaricati delle nuove perizie. E, come già capitato a Perugia, si scopre che quando ad avere in mano i reperti non sono quelli incaricati dalla procura, i risultati, sovente, cambiano radicalmente.Infatti il morso che fino a poche ore prima combaciava perfettamente alla dentatura dell’imputato, e che in effetti lo ha condannato al primo processo, non è un morso ma una semplice escoriazione. E non lo è anche perché mancano gli opponenti, cioè la dentatura inferiore (e dare un morso solo con la superiore è ben difficile). Il perito di Corte non solo ha smentito chi ha analizzato, ha anche calcato la mano parlando di ipotesi investigative che per chi ha indagato potevano essere pure affascinanti e suggestive ma che, nella realtà, sono assurde ed inverosimili. Altri periti ci hanno detto che sul reggiseno ci sono tracce biologiche del Brusco, ed anche tante (ne era il fidanzato), ma ce ne sono pure due che non gli appartengono (ohibo’, chi altri ha messo le mani sul seno di Simonetta, lasciando il suo dna, se non l’assassino?). Il sangue sulla porta, misto a quello della vittima, non è di Raniero Brusco come non lo è quello sul telefono. E non lo è neppure il sangue trovato sullo specchio dell’ascensore, una parte è di Simonetta l’altra non è di Brusco, e nemmeno il sangue rinvenuto sugli stracci del vano ascensore, probabilmente l’assassino si è ferito una mano nell’accoltellameno (una trentina le coltellate inferte, ma subito dopo morta perché la causa del decesso è antecedente e deriva dalla testa sbattuta sul pavimento).Ed ora a Raniero Brusco si sono alzate di molto le probabilità di una assoluzione. Fosse così il giallo di via Poma resterà nuovamente insoluto (meglio insoluto che risolto male). Le cause che portano a questa debacle sono tante e paiono partire da compiacenze e da aiuti fatti, da chi poteva farli, agli assassini. Assassini perché, come suggeriscono le tracce di sangue diverse fra loro, due o addirittura tre quelle presenti in loco, ed i due nuovi dna sul reggiseno, più persone hanno aggredito Simonetta in quel pomeriggio. Ma ormai pare essere tardi e la verità sarà difficile da accertare. E fa male alla giustizia sapere che il delitto lo si è scoperto dopo poche ore e che, viste le tracce fresche, l’assassino lo si poteva catturare, volendolo catturare, nel giro di breve. Fa male il sapere che ogni volta che si vuol chiudere un caso a tutti i costi, ci si trova di fronte a perizie fatte male o a modo. Perché sempre più spesso i periti delle procure vengono smentiti dai periti scelti dai giudici? Perché i laboratori in cui operano sono privati ed all’avanguardia… o perché chi può scegliere fra due alternative preferisce quella che più piace ai Pm che poi daranno l’ok al pagamento?Io preferisco la prima ipotesi, ma in certi casi non si può escludere neppure la seconda…

Featured image, foto storica del Progetto Stazione Termini, Roma.


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