di Gianluca Bonazzi
“Simple Minds: concerto o esperienza d’arte?”
Sento il desiderio di spendere parole di amore e poesia per un evento che mi ha catturato il cuore ed illuminato la mente: il concerto dei Simple Minds all’Alcatraz di Milano il 28 febbraio 2012.
Non una serata nostalgica per gente male invecchiata, come si poteva credere, ma un concerto di semplici menti, cacciatori e cacciati, di suoni senza tempo, capaci di ricordare il passato, celebrare il presente e anticipare il futuro.
da Wikipedia
Questo mio pensiero è dovuto alla scaletta che loro scelsero di suonare: cinque canzoni dai primi cinque dischi, realizzati negli anni ’80. Programma noto da tempo e per questo tanto atteso, ma che alla prova dei fatti si è dimostrato autentico e coinvolgente, perché musiche, voci e suoni erano perfettamente calibrati per una miscela ancora originale quanto energica. Materiale da far venire i brividi a chi, come me, li ha ascoltati in passato ma non solo, perché sarà sempre musica straordinariamente avanti al suo tempo. Questa idea su di loro l’ho sempre avuta, ma durante il concerto ne ho avuto la conferma.
La formazione dai primi anni è cambiata, ma è rimasta inalterata negli elementi chiave: il cantante Jim Kerr, il chitarrista Charlie Burchill e il batterista Mel Gaynor, che da musicista di sala si è trasformato in elemento fondamentale della band.
Perché la loro musica, almeno quella dei primi dischi, è arte? L’arte per me è quell’energia misteriosa e creativa che, mentre ti emoziona il cuore, ti colpisce la mente, offrendo infiniti spunti all’immaginazione.
I Simple Minds di quel periodo sono arte, perché sanno disegnare uno scenario tipicamente metropolitano, ma vuoto di presenze umane, quindi sanno creare un’atmosfera sospesa, oltre l’incubo generato dalla modernità, per rivivere la dimensione del sogno.
Ideale colonna sonora per luoghi come stazioni ferroviarie, aeroporti, autostrade, gallerie, strade e quant’altro di simile, illuminati dalle luci della notte fonda, immortalati un attimo dopo che l’ultima persona si è allontanata.
Quando li ascolto, mi viene perciò da credere che si può pure vivere la realtà cittadina, osando sognare però una cadenza diversa, come quella di certi loro pezzi, anche strumentali, che sono già di per sé lunghi, sui 5/6/7 minuti, ma potrebbero durare anche molto di più, per quanto è avvincente il loro ritmo.
I primi 5 dischi li divido in tre parti: il primo, pieno di furori giovanili, romantici e vellutati; il secondo, il terzo e il quarto che rimandano a scenari contemporanei, sospesi tra incubo e sogno; il quinto, che ritorna agli umori del primo, ma con meno rabbia e più poesia.
Il concerto è stato seguito in un locale gremito di gente, trepidante e coinvolto da ogni singola nota. Probabilmente c’era più nostalgia nel pubblico che in loro. Hanno riportato indietro l’orologio della Musica suonata con passione e creatività sincera, smarrito nel flusso vorticoso di una Modernità che non apprezza più l’Arte fine a se stessa.
Concludo con una mia rivisitazione personale, un augurio, un auspicio, una futuristica premonizione per il futuro di questa Terra malata, amata e odiata allo stesso tempo, creato mescolando alcuni loro titoli tra i più famosi.
A ognuno la possibilità di divertirsi, ritrovandoli.
“Qualcuno, da qualche parte, nel tempo dell’estate, vivendo da cacciatore e, insieme, da cacciato, sfuggendo alla cacofonia del reale comporrà un tema per grandi città e potrà promettere un miracolo: quello di creare finalmente un nuovo sogno dorato. Allora si potrà veramente vivere come in trance, per una missione, non celebrando più l’americano che è in ognuno di noi.”
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