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Perché portiamo bottoni sulle maniche delle giacche? La questione è controversa. C’è chi sostiene che l’idea sia venuta a Elisabetta I d’Inghilterra per dissuadere i suoi soldati dalla pessima abitudine di smoccolarsi strofinando il naso sul dorso dell’avambraccio, ma esistono versioni alternative, anche se in tutto analoghe, che ne attribuiscono la paternità a Horatio Nelson, a Napoleone Bonaparte, ecc. Tesi suggestive, se non fosse che bottoni sulle maniche delle giacche si osservano già in molti dipinti della seconda metà del Quattrocento. Più verosimile, come sostengono altri, che proprio in quel periodo vengano a sostituire le fettucce di stoffa che fin lì chiudevano ai polsi le maniche, come si osserva in molti personaggi ritratti da artisti del Duecento e Trecento (talvolta in numero di due o di tre, dal gomito al polso) evitando che queste fossero d’impaccio quando slacciate e semplificando di molto l’operazione di riannodo, che i bottoni consentono con una sola mano. Di certo c’è che l’uso pratico divenne nel giro di uno o due secoli puramente decorativo, e tale rimane oggi, anche se per fattura e materiali usati i bottoni alle maniche delle giacche non sono più oggetti di lusso, come lo furono nel Seicento e nel Settecento, fatta eccezione per l’argento e l’oro che ancora il blazer classico contempla. Con la crisi della sartoria artigianale e il trionfo dell’abito in serie, non è più il bottone, ma l’asola, a segnalare una residua preziosità della manica: quella dozzinale non ne ha e i bottoni vi sono appuntati a tutto spessore, a differenza della giacca che conserva qualche pretesa di capo di lusso, sulla cui manica ad ogni bottone corrisponde un’asola e il dettaglio è spesso messo in risalto col lasciarne disimpegnata l’ultima. Bene, a me pare che la questione dell’immunità parlamentare abbia molte analogie con quella dei bottoni sulle maniche delle giacche. Impossibile negare che l’istituto sia stato introdotto per valide ragioni, ma è altrettanto innegabile che oggi sia decaduto a mera decorazione o, peggio, a rappresentazione di un lusso inutile. So bene che c’è chi non riuscirebbe mai a rinunciare ai suoi tre o quattro bottoni sulla manica. A me sembra che non abbiano alcuna ragion d’essere, ma cerco di capire a cosa gli servano. «L’immunità parlamentare – dice – sta nella Costituzione italiana dal 1948. Non basta, si potrebbe tornare ancora più indietro: all’epoca medievale, per esempio, e alle prerogative riservate ai membri dei parlamenti in ragione della loro alta funzione. Non c’era ancora la democrazia, non c’era ancora il suffragio universale, non c’era ancora il costituzionalismo, e però si poneva comunque il problema di come tutelare i componenti delle assemblee elettive. Questa tutela si chiamava allora e si chiamerà in seguito – udite udite – “privilegio parlamentare” […] La parola racconta la lunga storia con cui le istituzioni parlamentari si sono fatte largo contro la prevaricazione di altri poteri, conquistando uno spazio giuridico protetto, a tutela della insindacabilità delle opinioni e dei voti espressi nell’esercizio della funzione parlamentare, e per frapporre un impedimento (entro certo limiti e condizioni) alla sottoposizione a procedimenti penali, o all’arresto, o ad altre misure restrittive, di un rappresentante del popolo» (l’Unità, 24.6.2014). Benissimo, ma queste condizioni persistono? La risposta è ellittica: molto, molto ellittica. «È innegabile che di privilegi e immunità parlamentari si parla da che esistono i parlamenti, e dunque qualunque riscrittura della Costituzione è chiamata ad affrontare la questione. Solo che bisognerebbe farlo “sine ira ac studio”». Convengo, e sine ira ac studio, rinunciando a sospettare che l’asola apra alla sòla, chiedo perché a tutela della insindacabilità delle proprie opinioni non possa bastare, e per tutti, il primo comma dell’art. 21 della Costituzione. Chiedo quale sia la norma penale attualmente vigente che sanziona i voti espressi nell’esercizio della funzione parlamentare. Chiedo quale sia il reato per il quale sarebbe giusto o almeno opportuno che chi l’ha commesso sia perseguibile, se comune cittadino, e no, se deputato o senatore. E nell’articolo non trovo risposte.