Di SONIA COMINASSI
Liv Ulmann e Ingrid Bergman in Sinfonia d’autunno (1978)
“Ognuno ha i suoi occhiali, ma nessuno sa mai troppo bene di che colore siano le lenti dei propri”
Alfred De Musset, Fantasio, 1834
La catarsi, dal greco katharsis, indica nel suo significato lessicale una purificazione, la cerimonia stessa della purificazione. Essa assunse, innanzitutto nelle religioni e nelle pratiche magiche e successivamente nella filosofia, una valenza simbolica e spirituale riferendosi ora alla liberazione dell’uomo da teorie erronee e false credenze ora all’anima, la quale, memore della perfezione iperuranica cui desidera ricongiungersi, prende le redini della biga e si libera dalle passioni terrene. Eva, personaggio magistralmente reso da Liv Ullman, è come il prigioniero della caverna platonica che, a poco a poco, alla vista delle ombre degli oggetti presenti si risveglia dal letargo: le apparenze e la mancanza di verità l’hanno infatti incatenata impedendole di condurre degnamente la propria esistenzaLe apparenze sono state magistralmente tessute dalla madre Charlotte, pianista geniale e superba. Charlotte, una intensa e nevrotica Ingrid Bergman, è una versione moderna di Narciso, persa nel delirio della propria egotica luminosità, inafferrabile per il marito e le figlie, Eva e Helena, la cui vicinanza fisica e affettiva è per la pianista fonte di terrore e angoscia. Le uniche emozioni le prova sedendo dinanzi a un pianoforte, mentre tiene un concerto: la sua immedesimazione nel Preludio n.2 di Chopin è sofferta ad ogni nota, così intensa e piena da indurla a chiedersi se gli spartiti non abbiano mantenuto qualche segreto.
La macchina da presa indugia infatti, spesso immobile, sui due volti: la pianista tutta presa e trasfigurata dall’esecuzione del brano, la figlia, seduta di fianco, con uno sguardo indescrivibile, perso nel volto della madre mentre l’odio si confonde con l’amore. Le figlie sono il suo irrinunciabile specchio. Nonostante negli intermezzi tra un concerto e l’altro dominino un senso di costrizione e un irrefrenabile desiderio di fuggire, Eva e Helena sono parte dell’immagine riflessa nello specchio d’acqua: partecipano e contribuiscono alla costruzione della mimesi di una vita perfetta, in cui Charlotte non perde se stessa riuscendo a recitare il ruolo di madre amorevole, dedita alla famiglia ma costretta suo malgrado a essere lontana. Bergman riproduce un dramma psicologico e familiare in un’opera in cui è percepibile un grande tormento interiore che rimanda a eventi e situazioni autobiografiche che, con ogni probabilità, il regista cerca di risolvere estraniandosi dietro la macchina da presa. Il sipario si apre infatti su Viktor, il marito di Eva, che, alla maniera dei prologhi delle tragedie greche, si rivolge allo spettatore per presentare la moglie: fragile, nascosta dietro spessi occhiali da vista e incapace di provare emozioni autentiche. Nella fragilità di Eva l’ammirazione infantile per la madre si dispiega infatti in un’alternanza di vuoti lasciati dalle frequenti assenze, che la spingono a rannicchiarsi in un angolo preda della paura di non sopravvivere o di smettere di respirare, paure che denunciano l’acutezza del suo dolore.
Liv Ulmann e Ingrid Bergman in Sinfonia d’autunno (1978)
L’incontro tra Charlotte ed Eva, dietro invito di quest’ultima, desiderosa di proseguire la recita dopo sette anni, viene preparato sotto i migliori auspici: carico di affetto e di buone intenzioni. Eva veste di nuovo i panni della figlia obbediente e servizievole, Charlotte della madre attenta e amorevole. Si tratta, tuttavia, di un equilibrio precario: entrambe si sentono prigioniere dei vecchi ruoli. La prima si confida col marito sui comportamenti critici e al di sopra delle righe che prontamente la madre terrà, vestendo, ad esempio, un abito rosso per un’intima e modesta cena familiare. La seconda si rifugia nel proprio riflesso, nell’immagine che lo specchio le restituisce, imponendosi addirittura di protrarre il soggiorno per qualche giorno, resistendo al desiderio di fuggire. Il film vede dunque un’ alternarsi caotico di rabbia e amore, distacco e vicinanza, in un mosaico fragile di un equilibrio che si sgretola in una notte, nella notte della catarsi. Le due donne prendono infatti posizione, l’una distante dall’altra quasi fossero avversarie e si preparassero a dispiegare le forze. L’inquadratura è ora rovesciata: Eva, bambina, viene ripresa in una prospettiva dal basso verso l’alto, seduta ai piedi della madre intenta a leggere il giornale. In questo teatro della verità, Eva abbandona i propri spessi occhiali e qualunque prudenza verbale. Si siede sul divano e, mentre la macchina da presa inquadra le spalle di Charlotte, cala un’ombra cupa e minacciosa sul suo volto. Interminabili minuti in cui la disperazione, la collera e il rancore si fondono in uno spregiudicato atto d’accusa in cui riemerge l’antico abbandono. Charlotte, dal canto suo, ha perso il suo charme, lo specchio si rompe. La sua figura rimane congelata, impreparata a cogliere il dolore della figlia ed il proprio: non è più forte della figlia, l’immagine che si è sempre data è precaria ed infine si disgrega.
È una notte di logoramento: i lineamenti dei volti si fanno sempre più marcati e affaticati. Terribile e impietosa è la rappresentazione di odio scolpita nelle parole di Eva durante il litigio: “Non hai attenuanti, mi dispiace. Non ci può essere perdono. Sei sempre riuscita ad assolverti, ma non puoi deciderlo da sola. Devi assumerti le tue responsabilità e le tue colpe, come tutti gli altri”. E ancora: “Mamma, il mio dolore è un tuo piacere segreto?”. Eva ama la donna che l’ha messa al mondo e ciò, nell’intimo di Charlotte, è qualcosa di ancor più duro da sopportare dato che è consapevole di servirsi della figlia come espiazione. Quasi che le manifestazioni dell’amore scelgano terreni impervi ove manifestarsi e l’imperfezione dell’essere umano renda le passioni più acute e controverse. Ognuna è intenta a far comprendere all’altra le proprie ragioni; ognuna necessita della comprensione dell’altra, senza però ottenerla. Solo col sorgere del sole emergono i propositi e le buone intenzioni che hanno animato i primi momenti, ma la vicinanza è nuovamente compromessa e richiede un distacco, tremendo quanto più silenzioso. Il duello che contrappone madre e figlia mostra la meschinità dell’animo umano, incapace di abbandonarsi all’amore. Tuttavia, non tutto si è sfaldato. Viktor è l’emblema stesso della speranza: sa di non essere amato dalla moglie ma il suo sentimento per lei è immutabile.
Nella parte finale, Eva è di nuovo alla scrivania, intenta a scrivere una seconda lettera. Una lettera, in cui emerge il bisogno di una riconciliazione e che Eva consegna nelle mani di Viktor. È proprio a questi che Bergman affida la lettura delle parole di sua moglie…