Patrizia Poli
In tre, vennero fuori dagli alberi, davano l’idea di una famiglia, avevano persino un cane.
Solo che erano Permutanti. Non se ne vedevano da anni, li riconobbi per averne studiato sulle tavole d’anatomia comparata.
Allora gestivo da solo questa taverna, avevo troppo da fare per imparare le lingue di posti di cui non m’importava un fico secco, perciò ebbi difficoltà a capirli. Ma tutti i profughi sono uguali e quei tre - padre, madre ed un bimbo brutto e ricciuto - avevano bisogno di un letto e di mangiare. Mi pagarono in anticipo, sebbene di soldi ne avessero pochi.
Assegnai loro una stanza stretta ed umida. Accettarono, senza discutere, stremati com’erano. Chiesero solo di poter consumare i pasti in camera.
Gli portavo il cibo ad ore stabilite, ma una sera, avendo molto da fare, decisi di anticiparmi, e già all’imbrunire salii la scala traballante con il vassoio della cena.
Fuori della porta mi soffermai, poiché, da sotto, filtrava una strana luce e si udivano mormorii d’una tenerezza infinita. Accostai l’occhio al buco della serratura.
Vidi i due adulti chini su qualcuno che, sulle prime, pensai essere il figlio.
Quando si scostarono un poco, fra loro scorsi una giovinetta con la pelle di madreperla e lunghi capelli bianchi sciolti sulle spalle.
Era bellissima. La bocca solo un taglio nel volto, gli occhi così indefiniti da dimenticarli appena ti voltavi, eppure sembrava illuminata come avesse dentro la luna.
Non riuscivo a parlare né a distogliere lo sguardo, mentre i due adulti si asciugavano lacrime furtive, e la figura vacillava, ondeggiava, si fondeva.
Un attimo, ed era svanita.
Al suo posto, il brutto bambino, con il capo proteso per accogliere carezze compiaciute ma distratte.
Mi occorse qualche istante per riavermi, e per rendermi conto che, per la prima volta, avevo assistito alla mutazione di un Permutante.
Nei giorni successivi, la visione mi perseguitò. Ardevo dalla curiosità e dalla brama di rivederla, inventavo mille scuse per salire al piano di sopra. Quando la strana luce filtrava da sotto la porta, non resistevo ed accostavo l’occhio al buco della serratura, con il cuore in tumulto.
Ogni volta mi appropriavo di un dettaglio. Le mani affusolate, il vestito d’argento, la pelle trasparente. Certe sere non vedevo nulla.
La notte la sognavo, pallida sirena lunare. Veleggiavamo per le galassie tenendoci per mano, il suo vestito era la coda argentea d’un nobile pesce stellare.
La fiamma del mio amore cresceva, volevo lei e solo lei, senza pensare alle sgraziate spoglie sotto cui si celava. Perché tanta bellezza, tanta armonia, mi dicevo, in questo mondo così brutto, di certo si nascondeva.
Avevo imparato a cogliere il momento in cui le sembianze del bambino trascorrevano ed ondeggiavano come segni sull’acqua, fino a fluidificarsi e ricomporsi nella perfezione finale. Trepidante, spiavo l’apparire della forma amata, il suo condensarsi nella luce. Ed anch’io partecipavo dell’amore che gli altri le tributavano e che lei emanava.
Ma guardare non mi bastava più. Volevo avvicinarla, parlarle, toccarla.
Una sera non riuscii a trattenermi e spalancai la porta.
Il cane abbaiò, gli adulti si voltarono di scatto, sorpresi, imbarazzati.
Provenivano, spiegarono a gesti, dalle terre invase. Della loro bella città era rimasta in piedi solo qualche colonna del tempio. E proprio nel tempio aveva trovato la morte la loro figlia maggiore, quando l’esplosione aveva distrutto ogni cosa.
Era per tener vivo il ricordo della sorella, che il piccolo si prestava ad assumerne i lineamenti, pur che gli amati genitori avessero l’illusione di rivederla ancora, di risentire la sua voce.
Anche oggi, che lui non è più un bambino, oggi che i suoi sono entrambi morti, e che io sono vecchio, di tanto in tanto, bonariamente, tuttora si concede. Lo fa perché il bravo oste, che portava da mangiare gratis ai suoi genitori, possa ancora sognare la sacerdotessa venuta ad offrirgli un poco d’amore.
E l’amore, si sa, in questo nostro mondo, ormai è difficile da trovare.