Siria: la crisi diventa “glocale”

Creato il 02 marzo 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

Chi ritiene che la crisi siriana stia sfociando in una guerra civile, si sbaglia di grosso. La crisi sta degenerando in qualcosa di peggiore: una guerra che coinvolge sempre più attori internazionali, a fianco di quelli locali. Sono ormai diverse le voci e le fonti che parlano di un intervento, nel territorio siriano, di attori esterni al paese che andrebbero a ingrossare le fila dei movimenti antigovernativi, così come quelli delle forze statali. Il rischio concreto è quello di una fuoriuscita del conflitto dai confini stessi della Siria e un allargamento alla regione, con il coinvolgimento delle maggiori potenze (militari) mondiali.

La Reuters riporta recentemente come armi e combattenti musulmani sunniti starebbero entrando in Siria dall’Iraq per sostenere la rivolta contro Bashar al-Assad. Questa la testimonianza di fonti ufficiali irachene ed esperti locali del commercio di armi. Secondo la nota agenzia di stampa, i movimenti di rivolta contro il governo siriano avrebbero trovato un accordo con le tribù sunnite delle province irachene di Anbar e Ninawa, al confine con la Siria, dove forti legami familiari a cavallo delle porose frontiere hanno favorito da lungo tempo il contrabbando e i traffici illeciti.

In Iraq, infatti, inondato di armi fin dal 2003, si troverebbero ancora diverse categorie di “esperti di guerriglia”: i combattenti affiliati ad al-Qaeda, gli islamisti sunniti, ma anche miliziani legati al passato regime baathista di Saddam Hussein, per non parlare delle milizie sciite spalleggiate dall’Iran e di diverse gang criminali locali. Gli addetti alla sicurezza in Iraq sembrano affermare che gli insorti sunniti starebbero iniziando ad attraversare il confine con la Siria per raggiungere gli oppositori di Assad, e i contrabbandieri di armi starebbero incassando negli ultimi tempi cifre molto più alte per portare illegalmente armi in Siria.

Si tratta di un flusso, quello di guerriglieri e di armi, che la frontiera tra i due paesi conosce bene, anche se fino a oggi la direzione era inversa rispetto a quella attuale: dalla Siria all’Iraq. Attualmente, il flusso avrebbe invertito la rotta e si starebbe riversando dal “bonificato” Iraq alla Siria, sempre più terreno per i giochi geostrategici internazionali. La frontiera con la Siria è stata a lungo una via di contrabbando difficile da controllare. La Reuters riporta come, all’inizio del 2012, i residenti nella città di confine di Qaim abbiano raccontato di aver collaborato all’invio di cibo e altro materiale ai loro amici oltre frontiera nella città di Abu Kemal, dopo che il punto di passaggio era stato chiuso: un bello smacco per le guardie di frontiera. Inoltre, da diverse fonti giunge la notizia che i prezzi delle armi di contrabbando nella zona sarebbero aumentati vertiginosamente nell’ultimo mese, poiché i contrabbandieri siriani ne stanno chiedendo in grandi quantità, soprattutto armi d’assalto come i Kalashnikov.

La crisi siriana sta ponendo il governo iracheno, a maggioranza sciita, in una situazione di equilibrio precario, a livello interno e regionale: da un lato il conflitto siriano sta assumendo sempre più i caratteri dello scontro settario, con Assad chiamato ad affrontare una pressione crescente da parte della Lega Araba, degli USA e dell’Unione Europea. Dall’altra, Baghdad mantiene forti legami politici e commerciali con l’Iran a maggioranza sciita, che a sua volta è uno stretto alleato di Assad; inoltre, lo stesso Assad appartiene alla setta alawita, di derivazione sciita, in netta minoranza in una Siria prevalentemente sunnita. Si profila insomma un intricato incrocio di alleanze e appartenenze destinato a generare frizioni.

Come se ciò non bastasse, in un video diffuso il 12 febbraio, Ayman al-Zawahri, capo di al-Qaeda, ha richiamato i Musulmani in Turchia, Iraq, Libano e Giordania a raggiungere i ribelli siriani. Al Qaeda in Iraq, sebbene indebolito dalla perdita dei capi più importanti, sembrerebbe ancora forte: gli ufficiali locali raccontano come i combattenti stiano ricomparendo nelle vecchie roccaforti, ora che gli Stati Uniti hanno lasciato il paese e che la capacità di intelligence del governo iracheno è attualmente di molto ridotta.

Tuttavia, parla della questione Iraq anche Russia Today, che racconta come il Vice Ministro degli Interni iracheno Adnan al-Assadi abbia denunciato, in una recente intervista all’agenzia stampa AFP, che le autorità irachene sarebbero in possesso di informazioni di spionaggio secondo cui “un numero di jihadisti iracheni” sarebbe passato in Siria per prendere parte all’insorgenza. Inoltre, Assadi ha confermato come sia aumentato il flusso di armi verso la Siria, testimoniato anche dall’aumento dei prezzi dal lato iracheno, tanto che per un Kalashnikov il costo sarebbe passato da 100-200 dollari a 1.500 dollari. Una conferma ufficiale, insomma.

Qualche giorno dopo, il giornale libanese The Daily Star riportava la notizia secondo cui due gruppi di militanti islamisti legati ad Al Qaeda in Iraq avrebbero rifiutato la chiamata di Zawahri, spiegando come l’invio di armi e combattenti oltre confine avrebbe soltanto inasprito il conflitto. L’Esercito Islamico in Iraq, composto da sunniti e da ex ufficiali iracheni, che si occupava fino a qualche mese fa di combattere la presenza militare statunitense in Iraq, ha dichiarato di non voler inviare combattenti, denaro o armi in Siria, limitandosi a supportare moralmente il popolo siriano. Secondo il leader dell’Esercito Islamico, al Qaeda starebbe cercando di “rubare la rivoluzione” al popolo siriano.

Gli fa eco lo Sheikh Khalid al-Ansari, uno dei capi dell’Esercito al Rashideen, un secondo gruppo islamista iracheno, il quale dichiara che armare l’opposizione siriana favorirebbe la creazione di un conflitto settario crescente nel paese, analogo a quello avvenuto in Iraq. Per questo motivo, anche al Rashideen non intenderebbe rispondere all’appello di Zawahri. Tuttavia, proviene dagli Stati Uniti stessi la notizia secondo cui gruppi legati ad al Qaeda si sarebbero infiltrati in Siria per combattere con l’opposizione. L’Intelligence statunitense, infatti, ha spiegato come dietro alle recenti esplosioni di Damasco e Aleppo ci sarebbe la mano di al Qaeda. Il governo di Assad, da parte sua, ha annunciato di voler combattere i “terroristi” che, a suo dire, hanno ucciso più di 2.000 membri delle forze di sicurezza.

In questo scenario, risulta interessante notare come le versioni di Assad e degli Stati Uniti sulla questione siriana siano sul punto di combaciare: entrambi, infatti, confermano attualmente la presenza di gruppi terroristici nel paese che starebbero combattendo contro le forze governative siriane. Stupisce tuttavia come questa versione, sostenuta del governo siriano fin dall’inizio delle ostilità, sia stata recentemente abbracciata anche dagli Stati Uniti. Dopo i disastri afghano, iracheno e libico, gli USA sembrano a corto di un casus belli adeguato per attaccare la Siria. Se nei primi due casi l’opinione pubblica era stata accontentata con i temi della “lotta al terrorismo” e delle famigerate “armi di distruzione di massa irachene”, l’intervento in Libia aveva richiesto una nuova motivazione, riconosciuta ben presto con il sostegno alla popolazione locale contro il pluridecennale “tiranno” Gheddafi. Tuttavia, porzioni sempre più ampie di opinione pubblica appaiono negli ultimi tempi dubbiose e perplesse di fonte a simili spiegazioni: a forza di tirare, l’elastico si rompe. L’infiltrazione di miliziani di al Qaeda in Siria, tuttavia, potrebbe fornire alle forze internazionali il casus belli che mancava per un altro “intervento umanitario”. A ben vedere, al Qaeda è da dieci anni a questa parte un’ottima carta da giocare, quando serva una causa condivisa per sferrare un attacco avventato.

Tuttavia, l’importanza della posta in gioco (il controllo di tutto il Vicino Oriente) rende necessario un piano complesso e articolato. Inoltre, l’aperta opposizione di due potenze come Cina e Russia a un intervento in Siria, esplicitato chiaramente in due occasioni consecutive in sede ONU, rende la nuova missione alquanto delicata. Il processo di “liberazione” della Siria si sta pertanto sviluppando mediante il coinvolgimento più o meno aperto di un numero crescente di attori attorno al gioco siriano. L’obiettivo, evidentemente, è quello di far intervenire altri per primi e di lasciar degenerare il conflitto a tal punto da rendere “desiderabile” l’intervento risolutore degli Stati Uniti, magari sotto l’egida della NATO.

A questo proposito, le forze di pressione sono già mobilitate. La Lega Araba ha passato una risoluzione al Cairo il 12 febbraio scorso, con cui chiede agli Stati arabi di “fornire ogni genere di supporto politico e materiale“ all’opposizione che si batte contro Assad: c’è da sperare che tale supporto rimanga a un livello politico, poiché se si materializzasse in un maggiore afflusso di armi, la Siria diventerebbe una sorta di polveriera. La Siria ha già chiesto che il Libano interrompa il contrabbando di armi attraverso il suo confine e ha accusato anche il vicino turco di scarso impegno nella lotta al contrabbando di armi: in una tale prospettiva, l’ingresso di armi in Siria starebbe avvenendo lungo ben tre confini del paese. Inoltre, secondo il Washington Times, fonti dell’opposizione siriana affermerebbero di ricevere armi provenienti da Turchia e Giordania. Sotto questo punto di vista, l’appello della Lega Araba sembra giungere alquanto tardivo: diversi paesi arabi hanno già provveduto da soli ad attivare i supporti materiali.

Secondo il Guardian, invece, la Turchia sarebbe probabilmente “il più significativo giocatore esterno” nella partita siriana. Il paese ospita infatti il Consiglio Nazionale Siriano e fornisce una base all’Esercito della Siria Libera, un esercito costituito da militari disertori e milizie locali che sta conducendo l’opposizione armata ad Assad. Secondo il sito israeliano debka.com, conosciuto per i suoi legami con i servizi segreti, anche truppe britanniche e qatariote sarebbero largamente coinvolte nella battaglia di Homs dalla parte dell’opposizione. L’11 febbraio scorso, la Siria ha chiesto a Tunisia e Libia di chiudere le rispettive ambasciate a Damasco entro 72 ore, a seguito di analoghe richieste, da parte di questi due paesi, nei confronti dei diplomatici siriani. Anche i sei stati membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo hanno a loro volta ritirato i rispettivi ambasciatori dal paese, espellendo dai propri territori gli omologhi siriani.

Nel frattempo, anche il fronte di Assad aspetterebbe rinforzi. Il quotidiano cinese Renmin Ribao ha infatti raccontato nei giorni scorsi come il governo siriano sarebbe in attesa di 15.000 truppe iraniane, da dispiegare in diverse province chiave del paese per mantenere l’ordine. A riguardo, il Telegraph racconta che l’opposizione siriana ha annunciato che il comandante dei reparti speciali iraniani Quds, Qassem Suleimani, starebbe fornendo consulenza alle autorità siriane per fermare il movimento di opposizione al regime. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, la Quds include 15.000 soldati specializzati, che avrebbero già operato in Iraq e in altri teatri di guerra all’estero. La Quds è accusata da Israele di formare e finanziare Hezbollah, il movimento sciita libanese. La Quds avrebbe già una base militare vicino Damasco e starebbe progettando di far giungere dall’Iran truppe specializzate. Teheran non ha ancora né confermato né smentito la notizia; tuttavia, secondo il capo dell’agenzia stampa iraniana Mehr, non sarebbe nei piani delle autorità l’invio di truppe in Siria. A metà febbraio scorso, due navi da guerra iraniane hanno attraversato il canale di Suez per attraccare nel porto siriano di Tartous; ufficialmente, le due navi sono state inviate in Siria per svolgere alcune esercitazioni con la marina siriana, secondo gli accordi tra i due paesi. La tensione è scesa qualche giorno dopo, quando le navi hanno lasciato la Siria per rientrare in Iran. L’episodio, sebbene concluso in pochi giorni, ha certamente messo in luce come l’alleato iraniano sia sensibile a ciò che sta accadendo nell’area e, soprattutto, intenda rispondere colpo su colpo alle provocazioni da parte degli Stati Uniti, e, nella fattispecie, alla presenza della marina statunitense nelle acque del Golfo, di fronte alle coste iraniane.

Nel frattempo, Israele non sta a guardare, e approfitta della ghiotta occasione al suo confine per colpire su più fronti. Dapprima suggerendo, per mezzo del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, come le “forze di sicurezza” israeliane si stiano organizzando per concedere il bis all’Operazione Piombo Fuso contro Gaza, avvertendo in questo modo un alleato importante di Assad nella regione, il movimento Hamas. In secondo luogo, inasprendo con dichiarazioni e con prove di forza crescenti il confronto con l’Iran, l’alleato per eccellenza di Damasco. Si profila sempre più il rischio di un attacco combinato di Israele e Stati Uniti-NATO contro Siria e Iran. In un tale scenario, Israele si occuperebbe di attaccare Gaza e il Sud del Libano, annichilendo così i due gruppi alleati a Ovest della Siria; mentre le forze internazionali avrebbero campo libero in Siria, e l’Iran si troverebbe, solo, a dover intervenire per difendere il suo ultimo baluardo, Damasco appunto.

Le prospettive di un attacco congiunto Stati Uniti-Israele, con il supporto delle petromonarchie del Golfo e l’acquiescenza degli altri Stati arabi, potrebbero garantire un’azione rapida ed efficace. Non potrebbero tuttavia garantire che gli strascichi di una tale nuova avventura non diventino catastrofici. L’Iran, appunto, perso il suo ultimo baluardo non potrebbe far altro che intervenire e diventerebbe, in una tale prospettiva, l’ultimo baluardo della Russia. La quale si troverebbe così circondata dalle forze euro atlantiche, in una situazione simile a quella di Teheran. Sul suolo siriano, pertanto, si stanno incrociando gli interessi e le schermaglie di una molteplicità di attori, statali e non statali, ufficiali e ufficiosi, che vanno oltre lo scontro pro e contro Assad e che potrebbero innescare un conflitto a catena.

Intanto, in Siria si è svolto un referendum per una nuova costituzione, nel tentativo di mettere fine al conflitto che ha squassato il paese per 11 mesi. Il presidente Assad ha assicurato che la nuova costituzione includerà un capitolo capace di mettere fine al monopolio del Baath sulla scena politica del paese, anche se non mancano gli analisti che riscontrano nel testo della Costituzione alcune importanti restrizioni al pluralismo partitico nel paese. Tuttavia, a questo punto risulta difficile credere che le molteplici forze entrate nel conflitto siriano si accontenteranno di un passo indietro da parte del governo di Assad, qualora dovesse avvenire: la posta in gioco, ora, è molto più alta. Il conflitto da locale è diventato regionale e si sta trasformando, a livello politico e strategico, nonché mediatico e cibernetico, in uno scontro globale.


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