Le prospettive di una guerra civile su fondamento religioso, in Siria, stanno crescendo di giorno in giorno, secondo molti analisti mediorientali. E naturalmente in uno scontro che opporrebbe sunniti, sciiti e alawiti, la minoranza a cui appartiene la dinastia di Bashar al-Assad e che regge il Paese da decenni, molti si chiedono quale sarebbe la posizione e il ruolo dei due milioni e oltre di cristiani in un eventuale conflitto; e l’esempio dell’Iraq li porta a ipotizzare un futuro molto difficile, se non drammatico.
Fonti autorevoli riportano che i mercanti libanesi di armi notano, nelle ultime settimane, un rapido aumento dei prezzi, che attribuiscono a richiesta crescente da parte del mercato nero siriano. E Muhammad Rahhal, uno dei leader del Consiglio rivoluzionario dei comitati di coordinamento siriani ha dichiarato la settimana scorsa al giornale arabo-londinese “Al-Sharqi al-awsat” (Il medio oriente) in maniera brutale: “Abbiamo preso la decisione di armare la rivoluzione che molto presto diventerà violenta, perché quello che stiamo affrontando oggi è una cospirazione globale a cui si può rispondere solo con una sollevazione armata”. E alcuni sostengono che l’Arabia saudita, tranquillizzata dal fatto di aver messo a tacere i propri dissidenti, oltre a quelli del Bahrain e dello Yemen, sta finanziando ampiamente i combattenti sunniti della Siria, per contrastare Assad e la sua alleanza con l’Iran.
Gli alawiti non sono mai stati considerati totalmente e puramente musulmani dagli altri seguaci del Profeta, sunniti e sciiti. E il fondamentalismo islamico schiacciato ad Hama da Assad padre negli anni ’80, sta riemergendo con forza. Lo slogan stesso delle prime manifestazioni: “Dio, Siria, libertà e basta” è indicativo in questo senso. Come pure ciò che sta accadendo ad Homs, una città del cuore della Siria e dove scontri e repressione sono più duri. Homs si sta trasformando in una Beirut della guerra civile, frazionata su base religiosa, con strade in cui è pericoloso passare, se non sei della religione giusta. Gli alawiti hanno reso sicure le strade che portano alle loro aree residenziali con check-point “confessionali” perché temono il massacro, in una Siria del dopo Assad.
Come molti cristiani, d’altronde; e in questa prospettiva bisogna leggere il messaggio che il patriarca greco-melkita cattolico Gregorios III (Laham), parlando della “primavera araba”, e rivolgendosi in modo indiretto al presidente Bashar al-Assad, ha chiesto “interazione” tra il governo e le giovani generazioni attualmente nell’opposizione. Il patriarca si rivolgeva ai musulmani siriani in occasione della festa del “Fitr” (la “rottura del digiuno”), che conclude il mese di Ramadan. Gregorios III critica l’atteggiamento dei governi arabi, come di quelli americano ed europei: “Ci aspettavamo che, in queste circostanze tragiche, il mondo arabo si muovesse, cioè che i Paesi arabi e musulmani convocassero un vertice dopo l’altro, per studiare i dolori e le aspirazioni dei loro popoli, e che ci fosse interazione con le rivoluzioni delle giovani generazioni.
Insieme, avrebbero dovuto analizzare le cause ed i parametri di queste rivoluzioni, le loro dimensioni, le loro finalità, i loro rischi e le opportunità che possono rappresentare per noi tutti, invece di lasciare forze straniere ─ qualunque sia la loro intenzione ─ interferire ed immischiarsi nei nostri affari, dettarci le loro idee, minacciare i nostri governi, incitare i nostri presidenti alle dimissioni ed alla partenza dai loro Paesi, ed infliggere a quelli che sono stati i simboli dei nostri Paesi arabi la destituzione e processi umilianti”. “Il nostro mondo arabo ha bisogno di una rivoluzione intellettuale, spirituale e sociale” conclude Gregorios III precisando che questa rivoluzione non deve essere violenta, non deve seguire il modello che alcuni mezzi televisivi suggeriscono dall’inizio di quest’anno.
E’ uno spostamento dalle posizioni decisamente pro-Assad tenute fino ad ora dalla maggioranza dei cristiani siriani. E gli fa eco, dal Libano, Samir Geagea, leader delle Forze libanesi, secondo cui “la presenza cristiana nella regione non si basa sui regimi attuali. E se regimi fondamentalisti prendessero il potere, ci opporremmo a loro come ci siamo opposti ad alcuni dei regimi attuali”; un riferimento chiaro al governo siriano. “Se la presenza cristiana dipendesse dai regimi dittatoriali, non esisteremmo”, ha concluso.
Parole coraggiose; ma una cosa è il Libano, e un’altra la Siria, dove le defezioni dai ranghi più bassi dell’esercito si stanno intensificando, e dove l’uso delle armi in manifestazioni una volta pacifiche sembra in aumento. Anche il regime sembra si stia preparando a un confronto; Assad ha firmato un accordo con l’Iran per la costruzione di un’ampia base militare nell’aeroporto di Latakia, che servirebbe come via diretta per il rifornimento di armi pesanti e altro materiale dall’Iran. Latakia, un porto nel nord del Paese è la “capitale” alawita della regione; a Latakia è stata particolarmente dura la repressione dei palestinesi e degli oppositori; e c’è chi pensa che il governo voglia creare nella zona una enclave alawita, se dovesse perdere il controllo di parte o di tutto il resto della Siria in un futuro conflitto civile interconfessionale; che segnerebbe una fine tragicamente ironica del sogno panarabo del partito “Baath”, laico e socialista.
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