Sister – Mia sorella, La Effe, ore 22,50.
Una storia, quella di Sister, alla Dardenne, un ragazzino di sì e no dodici anni che vive in uno stato di indigenza estrema insieme alla sorella sciagurata che non lavora quasi, cambia fidanzati in continuazione senza azzeccarne mai uno decente e incappando in una delusione via l’altra. Li guardi e ti si stringe il cuore, due sfigati, due perdenti, due dannati della terra, anche se vivono nella ridente e opulenta Svizzera. Nessuna famiglia alle spalle a dargli una mano, servizi sociali zero. Simon campicchia e fa soldi rubando. Ruba ai turisti della stazioni alpina che sta sopra alla torre dove lui e la sorella Louise abitano, un salto sulla funivia, poi sulle piste ad adocchiare le prede, preferibilmente turisti inglesi. Ruba sci soprattutto, che nasconde in posti fantasiosi, ma anche attrezzeria varia, caschi, guanti, giubbotti, occhiali e quant’altro, li rivende allo staff di un ristorante, a chi capita, anche per strada. Un vero professionista, Simon, capace di guadagnare più della sorella. Che a un certo punto pare si sia trovata un fidanzato ricco, un tizio con una Bmw rossa, potrebbe sistemarsi, potrebbe forse sistemare anche Simon, ma lui fa una rivelazione sconvolgente che rovinerà tutto. Tra Simon e Louise c’è molto di ambiguo, c’è la solidarietà degli sfigati e dei deboli, ma anche una rapacità reciproca, soprattutto da parte di lei, che a momenti sembra non sopportarlo. Nella scena più atroce, quando lui le chiede di dormire nello stesso letto con lei, Louise pretende soldi, e Simon è costretto a darle tutti quelli che ha. Siamo in quanto abiezione familiare tra il Dickens più dark e il Malaparte di La pelle. Ma sono anche gentilezze, scambi di doni, qualche soprassalto di umanità in quei due animali feriti che hanno come sola bussola la sopravvivenza. Ursula Meier racconta presto e bene, a ciglio asciutto, lasciando che a parlare e magari a commuovere e colpire siano le cose, gli atti, i personaggi, le situazioni. Il film fila via benissimo per un’ora, fino a quella rivelazione di Simon sulla Bmw rossa. Poi inesorabilmente si ripete, si avvita su se stesso, si affloscia, ridonda, cerca una conclusione e non riesce a trovarla. Ma cosa importa, questo nonostante i limiti dello script e soprattutto nella costruzione drammaturgica non compatta è un grande film, perturbante e disturbante, potente, dallo sguardo freddo e insieme partecipe. Meier prende evidentemente molto, moltissimo dai Dardenne e dai suoi bambini dickensiani dispersi nel mondo di oggi, ma non ha la loro implacabile, inesorable capacità di storytelling (le sceneggiature dei Dardenne, apparentemente così casuali, sono in realtà d’acciaio). Non ha nemmeno però, la Meier, certi manierismi dei due fratelli belgi, l’uso della camera a mano o in spalla, le inquadrature mosse a potenziare il senso di realtà di quanto rappresentato. Meier ha invece il gusto per l’inquadratura costruita, dell’immagine esteticamente significativa ed eloquente, crede nel potere della forma, della forma come antidoto al caos. Sceglie soprattutto per questa storia già vista un ambiente completamente nuovo, che non è quello delle metropoli disagiate dell’Occidente ma quello delle stazioni sciistiche d’alta quota. Il bianco, le montagne, il ghiaccio, la neve, le cucine calde dei ristoranti, gli interni degli alberghi. Un contesto straniante per la storia di un bambino cencioso, e dunque tantopiù efficace. La regista ci mette poi quel suo gusto quasi feticistico per le strade, le autostrade e ogni possibile sistema di trasporto, le funivie, le ferrovie (il suo film precedente si svolgeva tutto ai bordi di un’autostrada). La sorella (e qualcos’altro) è l’ormai superstella europea Léa Seydoux. Cameo di Gillian ‘X File’ Anderson come borghese signora britannica in vacanza sulle nevi coi pupi in cui Simon si illude di trovare una quasi-madre di riferimento.