Magazine Opinioni
Come dimostrano i testi sumerici e accadici, i popoli dell’antico Medio Oriente erano certi che gli Dèi del Cielo e della Terra potessero alzarsi dalla Terra e salire al Cielo, come pure vagare nei cieli a loro piacimento.
La dea Inanna, ad esempio, viaggiava da una parte all’altra del cielo, coprendo enormi distanze: un’impressa possibile solo: volando. E, in un’altra occasione è la dea stessa a parlare del suo volo. In un testo che S. Langdon (in «Revue d’Assyriologie ed d’Archeologie Orientale») intitolòUna liturgia classica di Innini, la dea si lamenta di essere stata espulsa dalla sua città. Obbedendo a un ordine del dio Enlil, un suo emissario, che «mi portò la parola del Cielo», entrò nella sala del trono, «mi mise addosso le sue mani sporche» e, dopo altre umiliazioni,
dal mio tempio
mi costrinsero a volar via.
Una regina come me, dalla mia città,
come un uccello mi fecero prendere il volo.
La capacità di volare, di Inanna come di tutti i principali dèi, veniva spesso rappresentata nelle raffigurazioni artistiche –che per il resto erano sempre antropomorfe- con delle ali. Le ali, come si può vedere da numerose raffigurazioni, non facevano parte del corpo: non erano dunque ali naturali, ma piuttosto un’aggiunta decorativa all’abito del dio.
Inanna/Ishtar, i cui lunghi viaggi sono ricordati in molti testi antichi, faceva la spola tra il suo iniziale dominio di Aratta e la tanto desiderata dimora di Uruk. Andò dal dio Enki nella città di Eridu e dal dio Enlil a Nippur, e si recò a far visita a suo fratello Utu nella sua sede di Sippar. Ma il suo viaggio più famoso fu quello che compì negli Inferi, regno di sua sorella la dea Ereshkigal. Questo viaggio costituì il tema non soltanto di racconti epici, ma anche di raffigurazioni artistiche su sigilli cilindrici, che mostrano la dea munita di ali, per sottolineare il fatto che in volo era andata da Sumer agli Inferi.
I testi che raccontano questo viaggio pericoloso ci dicono che, prima di prendere il volo, Inanna si mise addosso sette oggetti, che dovette via via abbandonare passando attraverso le sette porte che conducevano alla dimora di sua sorella. Sette oggetti simili vengono anche citati in altri testi relativi ai viaggi celesti di Inanna:
1. la SHU.GAR.RA si mise sulla testa.
2. “Pendenti misuratori” alle orecchie.
3. Catene di piccole pietre blu attorno al collo.
4. “Pietre” gemelle alle spalle.
5. Un cilindro d’oro nelle mani.
6. Cinghie che le stringevano il petto.
7. La veste PALA, avvolta attorno al corpo.
Anche se nessuno è riuscito ancora a spiegare la natura e il significato di questi sette oggetti, siamo certi che la risposta è già a portata di mano. Durante la campagna di scavi che dal 1903 al 1914 interessò l’area di Assur, la capitale assira, Walter Andrae e i suoi colleghi portarono alla luce nel tempio di Ishtar una statua della dea che, sebbene alquanto danneggiata, mostrava diversi marchingegni attaccati al petto e alla schiena.
Nel 1934 un’altra squadra di archeologi impegnata a Mari si imbatté in una statua analoga, e questa volta intatta, sepolta sotto terra. Essa rappresentava una bella donna a grandezza naturale, con in testa un copricapo adorno con un paio di corna, chiaro segno che si trattava di una dea. Pur avendo circa 4000 anni quella statua era talmente somigliante a un essere umano da sembrare quasi viva, tanto che in una fotografia si riusciva a stento a distinguerla dalle persone che le stavano intorno. Gli archeologi la chiamarono La dea con un vaso, poiché teneva in mano un oggetto cilindrico.
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A differenza delle incisioni o dei bassorilievi, questo tipo di rappresentazione della dea, tridimensionale e a grandezza naturale, rivela interessanti particolari di abbigliamento. In testa Inanna non indossa un elegante cappellino, ma uno speciale elmetto, dal quale sporgono due oggetti calcati sulle orecchie, che ricordano le cuffie di un pilota. Attorno al collo e sul petto compare una collana fatta di piccole pietre, probabilmente preziose, mentre le mani reggono un oggetto cilindrico che sembra troppo spesso e pesante per essere un vaso per l’acqua.
Sopra una blusa di tessuto trasparente, il torace della dea è attraversato da due cinghie parallele che si uniscono dietro e reggono, dietro il collo, una strana scatola di forma rettangolare, strettamente legata all’elmetto per mezzo di un laccio orizzontale.
La scatola doveva contenere qualcosa di molto pesante, perché sulle spalle della dea vi sono due grandi spalline con funzione di sostegno. Ad accrescere ulteriormente il peso della scatola vi è anche un tubo legato alla base da un morsetto circolare. L’insieme di questi strumenti – perché di questo senza dubbio si tratta – viene tenuto fermo da due serie di cinghie che attraversano la schiena e il torace della statua.
É evidente la corrispondenza tra i sette oggetti di cui Inanna aveva bisogno per i suoi viaggi nel cielo e l’abbigliamento che caratterizza la statua di Mari (e probabilmente anche quella mutilata trovata nel tempio di Ishtar ad Assur). Ritroviamo infatti i “pendenti misuratori” – le cuffie- alle orecchie; le file o “catene” di piccole pietre attorno al collo; le “pietre gemelle” – le due spalline- sulle spalle; il “cilindro d’oro” tra le mani e le cinghie nella “veste PALA” (“veste da sovrano”) e ha in testa l’elmetto SHU.GAR.RA, una parola che letteralmente significa “ciò che fa andare lontano nell’universo”.
L’impressione è dunque che Inanna sia vestita da aeronauta, o da astronauta.
L’Antico Testamento chiamava gli “angeli” del signore malachim – letteralmente “emissari”, che portavano i messaggi degli dèi e ne eseguivano gli ordini. Come molte fonti lasciano intuire si trattava di una sorta di “aviatori” divini: Giacobbe li vide salire al cielo su una scala, ad Hagar (concubina) di Abramo essi parlarono dal cielo, e furono sempre loro che, dall’aria, portarono la distruzione a Sodoma e Gomorra.
Il racconto biblico dei fatti che precedettero la distruzione delle due peccaminose città fa capire che questi due emissari erano, da una parte, del tutto antropomorfi, e, dall’altra, che potevano a prima vista essere scambiati per “angeli”. Sappiamo che apparivano sempre improvvisamente. Abramo «levò lo sguardo ed ecco, vi erano tre uomini in piedi davanti a lui». Inchinandosi a loro e chiamandoli “miei Signori”, li supplicò: «Non passate sopra il vostro servo senza fermarvi», e li convinse a lavarsi i piedi, riposarsi e mangiare.
Dopo aver fatto ciò che Abramo aveva richiesto, due degli angeli (il terzo “uomo” si rivelò essere il Signore stesso) proseguirono per Sodoma. Lot, il nipote di Abramo, «era seduto alle porte di Sodoma; e quando li vide si alzò per andare loro incontro e si prostrò a terra dicendo: “Vi prego, miei Signori, fatemi l’onore di venire nella casa del vostro servo a lavarvi i piedi e a passare la notte”. Quindi “preparò per loro un banchetto, ed essi mangiarono”. Quando si diffuse in città la notizia dell’arrivo dei due, tutti gli abitanti della città, giovani e vecchi, circondarono la casa, chiamarono a gran voce Lot e gli dissero: “Dove sono gli uomini che stanotte sono venuti da te?”».
Uomini, dunque: esseri umani che mangiavano, bevevano, dormivano e si lavavano i piedi affaticati, e tuttavia esseri che, a prima vista, tutti riconoscevano come angeli del Signore. Com’è possibile? L’unica spiegazione plausibile è che la gente li riconoscesse dal loro abbigliamento – elmetti o uniformi – o dalle armi che portavano. Che essi portassero armi speciali è certamente possibile: quando i due “uomini” arrivati a Sodoma, rischiarono di essere linciati dalla folla, si difesero «colpendo la gente all’entrata della casa con la cecità… e la gente non riusciva più a trovare la porta». E un altro angelo, apparso questa volta a Gedeone quando questi fu scelto come Giudice d’Israele, gli diede un segno divino toccando con il suo bastone una roccia, dalla quale cominciò a scaturire una fiamma.
La squadra di archeologi guidata da Andrae scoprì poi un’altra insolita raffigurazione di Ishtar nel suo tempio ad Assur. Più simile ad una pittura murale che ad un bassorilievo, essa mostra la dea con un aderente elmetto decorato e munito di grandi “cuffie”; gli occhi sono coperti da due occhialoni che sono parte integrante dell’elmetto. É evidente che chiunque trovandosi di fronte ad una persona così bardata, avrebbe l’impressione di trovarsi davanti a un aeronauta divino.
Gli “occhialoni” sono una caratteristica molto interessante, perché il Medio Oriente del IV millennio a. C. era letteralmente invaso da sculture molto sottili che raffiguravano in maniera stilizzata la parte superiore del corpo della divinità, esagerandone la caratteristica più evidente: un elmetto conico con una visiera o occhialoni di forma ellittica. Una serie di stauite di questo genere fu trovata a Tell Brak, un sito preistorico sul fiume Khabur, sulle cui rive, parecchi millenni dopo, Ezechiele avrebbe visto il carro divino.
L’Antico Testamento ci dice che il profeta Elia non morì sulla Terra, ma «salì al Cielo portato da turbine di vento». E non si trattò di un evento improvviso e inaspettato, ma anzi accuratamente preparato. Fu detto a Elia di andare a Beth-El (“la casa del Signore”) in un determinato giorno, e tra i suoi discepoli si era già diffusa la voce che egli stava per essere assunto in cielo. Quando chiesero al suo aiutante se la voce rispondeva al vero, egli confermò che sì, in effetti «oggi il Signore porterà via il Maestro». Quindi
Apparve un carro di fuoco,
e cavalli di fuoco…
Ed Elia salì al Cielo
Portato da un turbine di vento.
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Ancora più famoso e certamente meglio descritto, è il carro celeste che vide il profeta Ezechiele, il quale viveva tra i deportati ebrei sulle rive del fiume Khabur, nel nord della Mesopotamia.
I cieli si aprirono
E io vidi l’aspetto del Signore.
Quello che Ezechiele vide era un’entità con sembianze umane, avvolta da un alone di luce, seduta su un trono che poggiava su un “firmamento” di metallo all’interno del carro. Il veicolo stesso che poteva muoversi in tutte le direzioni per mezzo di ruote concentriche e sollevarsi verticalmente da terra, era descritto dal profeta come un turbine splendente.
E ho visto
Un turbine di vento proveniente da nord,
come una grande nuvola con lampi di fuoco
e splendore tutto intorno.
E all’interno di esso, proprio dentro il fuoco,
vi era una luce, come un alone splendente.
Recentemente alcuni studiosi (tra cui Josef F. Blumrich della NASA) si sono occupati di questo passo della Bibbia e hanno concluso che il “carro” visto da Ezechiele era un elicottero formato da una cabina poggiata su quattro sostegni, ciascuno dei quali munito di ali rotanti – un vero e proprio “turbine”.
Circa duemila anni prima il re sumero Gudea, festeggiando la costruzione del tempio in onore del suo dio Ninurta, scrisse che gli era apparso «un uomo fulgido come il cielo… con un elmetto sulla testa: certamente un dio». Durante questa apparizione, Ninurta, accompagnato da altri due dèi, stava in piedi dietro il suo “divino uccello di vento nero”. Come risultò poi evidente il tempio era stato costruito prevalentemente allo scopo di fornire una zona riservata, un riparo cintato e sicuro per questo “uccello divino”.
Per la costruzione del recinto, riferisce Gudea, furono necessarie travi enormi e grosse pietre importate da lontano. Solo quando l’Uccello divino” fu posto all’interno del recinto, il tempio fu considerato finalmente ultimato. Una volta la suo posto, l’”uccello divino” poteva “impadronirsi del cielo” e riusciva a “unire Cielo e Terra”. La sua importanza era tale che esso era costantemente sorvegliato da due “armi divine”, armi che emettevano fasci di luce e raggi mortali.
É evidente l’analogia tra la descrizione biblica e i testi sumerici per quanto riguarda sia i veicoli sia gli esseri all’interno di essi. Questi veicoli, chiamati “uccelli”, “uccelli volanti” e “turbini di vento”, che erano in grado di alzarsi in volo e salire verso il cielo ed emettevano luce brillante, erano senza dubbio delle macchine volanti.
Negli antichi testi si trova anche la descrizione di alcuni veicoli usati per portare gli aeronauti nei cieli. Gudea affermò che, quando l’uccello divino si innalzava sopra le terre. «gettava luce sui muri di mattoni». Il recinto protetto veniva chiamato MU.NA.DA.TUR.TUR (“la forte pietra dove riposa il MU”). Urukagina, sovrano di Lagash, disse riguardo al “divino uccello di vento nero”: «Il MU che emana luce come un fuoco, io l’ho fatto alto e forte». Analogamente, Lu-Utu, che regnò a Umma nel III millennio a. C., costruì un luogo per un mu, «che emana una specie di fuoco», per il dio Utu, «nel luogo consacrato all’interno del suo tempio».
Il re babilonese Nabucodonosor II, vantandosi di aver ricostruito il recinto sacro di Marduk, disse che all’interno della fortificazione fatta di mattoni bruciati e onice lucente:
Ho innalzato la testa della barca ID.GE.UL.
Il Carro del principato di Mardul;
La barca ZAG.MU.KU, che si vede avvicinarsi,
la suprema viaggiatrice tra Cielo e Terra,
ho chiuso nel mezzo del recinto,
schermandone tutti i lati.
ID.GE.UL, il primo nome utilizzato per descrivere questa “suprema viaggiatrice” o “Carro di Marduk”, significa letteralmente “alto fino al cielo, luminoso di notte”. ZAG.MU.KU, il secondo nome con cui viene citato il veicolo riposto nello speciale recinto, significa “lo splendente MU fatto per andare lontano”.
Abbiamo le prove che un mu – un oggetto conico, dalla sommità ovale – era effettivamente contenuto nel recinto sacro, quello più interno, dei templi dei Grandi Dei del Cielo e della Terra. Su un’antica moneta trovata a Biblo (la biblica Gebal), sulla costa mediterranea dell’odierno Libano, è raffigurato il grande Tempio di Ishtar. Sebbene la moneta lo mostri com’era nel I millennio a. C., possiamo comunque ritrovarvi gli elementi base dell’originario tempio di millenni prima, visto che gli antichi usavano ricostruire infinite volte i templi nello stesso luogo e secondo gli stessi criteri del piano originario
Dalla figura si vede che il tempio era diviso in due parti. Anteriormente vi era la struttura principale, imponente con il suo ingresso a colonne; dietro c’è una corte interna, o “area sacra”, nascosta e protetta da un muro alto e massiccio. Il tempio si trovava in posizione sopraelevata ed era raggiungibile solo salendo una scala.
Al centro dell’area sacra vi è una speciale piattaforma fatta di travi incrociate (sul modello, per intenderci, della Torre Eiffel), che sembra fatta apposta per sostenere un peso ingente. E su questa piattaforma sta l’oggetto di tutto questo apparato protettivo, un oggetto che non può essere altro che un mu.
Come la maggior parte delle parole sillabiche sumeriche, mu aveva un significato primario: “ciò che sale dritto”. Nell’uso comune, poi, il termine assumeva una trentina di sfumature diverse, da “alture” a “fuoco”, da “comando” a “periodo di tempo circoscritto”, fino a significare, in tempi più recenti, “ciò per cui uno è ricordato”.
Un inno a Inanna/Ishtar e ai suoi viaggi sulla Barca del Cielo dimostra che il mu era il veicolo con il quale gli dei giravano in lungo e in largo per il cielo:
Signora del Cielo:
Ella indossa il suo Abito del Cielo
E arditamente sale verso il Cielo.
Al di sopra di tutte le terre abitate
Ella vola nel suo MU.
La Signora che nel suo MU
Gioiosamente vola fino alle vette celesti.
Al di sopra di tutti i luoghi in pace
Ella vola nel suo MU.
É provato che i popoli del Mediterraneo orientale avevano visto tali oggetti simili a razzi non soltanto nei recinti dei templi, ma addirittura in volo.
Alcuni glifi ittiti, per esempio, mostravano, sullo sfondo di un cielo stellato, missili in volo, razzi montati su rampe di lancio e un dio all’interno di una camera radiante.
Parlando dei recinti più interni dei templi o dei viaggi celesti degli dei, o persino dei casi in cui furono dei mortali a salire al cielo, i testi mesopotamici usano il termine sumerico mu o i suoi derivati semitici shu-ma (“ciò che è un mu”), sham o shem. Poiché queste parole indicavano anche “ciò per cui uno è ricordato”, il termine assunse gradualmente il significato primario di “nome”, e così è stato pressoché universalmente tradotto, anche quando lo si trovava in testi antichissimi in cui il termine veniva chiaramente usato nella sua accezione originaria, quella di “oggetto usato per volare”.
Così G. A. Barton (The Royal Inscriptions of Sumer and Akkad, «Le iscrizioni reali di Sumer e Akkad») fissò quella che divenne l’incontestata traduzione dell’iscrizione trovata sul tempio di Gudea: «Il suo MU abbraccerà le terre da un orizzonte all’altro» è diventata «Il suo nomeriempirà tutte le terre». Un inno a Ishkur, che esaltava il suo “MU che emana raggi” in grado di arrivare fino al Cielo, è stata parimenti tradotta con «Il tuo nome è radioso e raggiunge lo zenith del Cielo».
Alcuni studiosi, poi, intuendo che mu e shem potessero indicare un complemento oggetto e non un “nome”, lo trattarono come un suffisso o una struttura grammaticale che non richiedeva traduzione, e così hanno completamente evitato il problema.
I traduttori biblici, che hanno indiscriminatamente tradotto shem con “nome” ogni volta che si sono imbattuti nel termine, non hanno evidentemente tenuto conto di un illuminante studio pubblicato più di un secolo fa da G. M. Redslob (in Zeitschrift der Deutschen Morgenlandischen Gesellschaft) nel quale l’autore affermava, a ragione, che i termini shem eshamain (“cielo”) derivano dalla radice shamah. Che significa “ciò che è rivolto in alto”.
Quando l’Antico Testamento ci dice che re Davide “fece uno shem” per affermare la sua vittoria sugli Aramei, diceva Redslob, certamente non “fece un nome”, bensì un monumento rivolto verso il cielo.
Una volta compreso che mu e shem in molti testi mesopotamici non vanno tradotti con “nome”, ma con “veicoli celesti”, si leggono sotto un’altra luce anche molte altre antiche storie, compreso l’episodio biblico della Torre di Babele.
L’undicesimo capitolo del Libro della Genesi narra del tentativo degli uomini di innalzare uno shem. Lo stile conciso (e preciso) del racconto fa pensare che si tratti di un fatto storico e tuttavia generazioni di esegeti biblici e di traduttori hanno cercato di dare al racconto un significato puramente allegorico, connesso al desiderio dell’uomo di “farsi un nome“. Un tale approccio, però, ha privato completamente il racconto del suo valore storico, un valore che l’episodio doveva senza dubbio avere per i popoli antichi e che torna ad acquistare anche per noi se leggiamo la parola shem nel suo vero significato.
Il racconto biblico della Torre di Babele si rifà agli avvenimenti che seguirono il ripopolamento della Terra dopo il Diluvio universale, quando delle genti «provenienti da est. Trovarono una pianura nella terra di Shin’ar e vi si stabilirono».
La terra di Shin’ar è, ovviamente, la terra di Sumer, nella pianura tra i due grandi fiumi della Mesopotamia meridionale. E quel popolo, portatore di una civiltà urbana che già conosceva l’arte di fabbricare mattoni e di costruire edifici di grande altezza, fece un progetto:
«Costruiamo una città,
e una torre la cui cima raggiunga il cielo;
e facciamo uno shem,
affinchè non siamo dispersi sulla faccia della Terra».
Ma questo progetto non piacque a Dio.
E il Signore scese
A vedere la città e la torre
Che i figli di Adamo avevano eretto.
E disse: «Ecco,
sono tutti come un solo popolo con una sola lingua
e questo è solo l’inizio delle loro imprese.
Ora, qualunque cosa decidano di fare,
non sarà più impossibile per loro».
Quindi il Signore disse, rivolgendosi a imprecisate entità simili a lui, che l’Antico Testamento non nomina:
«Venite, scendiamo
E confondiamo la loro lingua;
affinché non possano comprendersi l’un l’altro».
E il Signore li disperse da quel luogo
Sulla faccia della Terra
Ed essi smisero di costruire la città.
Perciò essa fu chiamata Babele
Poiché il Signore mischiò la lingua della Terra.
La tradizionale interpretazione di shem come “nome” ha reso incomprensibile questo racconto per generazioni. Perché gli antichi residenti di Babele (Babilonia) si sforzavano di “fare un nome”? Perché questo “Nome” doveva stare su “una torre la cui cima raggiunga il cielo”? E in che modo, facendo un nome, si potevano contrastare gli effetti di una dispersione del genere umano su tutta la Terra?
Se tutto ciò che quella gente voleva era, come spiegano gli studiosi, farsi una buona reputazione, perché il Signore si arrabbiò tanto, considerandolo un atto dopo il quale non vi sarebbero più stati limiti alle loro imprese? E perché mai ritenne necessario chiamare altre imprecisate divinità perché scendessero a porre fine a questo tentativo umano? Le spiegazioni tradizionali sono decisamente insufficienti a spiegare una reazione di questo genere.
Se invece utilizziamo il termine shem – utilizzato nel testo originale ebraico della Bibbia – non come “nome”, ma come “veicolo celeste”, allora, a nostro avviso, tutto diventa spiegabile, plausibile, addirittura ovvio. Gli uomini avevano paura che, via via che i popoli si fossero dispersi sulla Terra, avrebbero perso i contatti l’uno con l’altro: così decisero di costruire un “veicolo celeste” e una torre di lancio, in modo da poter volare – come la dea Ishtar, per esempio – in un mu ”al di sopra di tutte le terre abitate”.
In una parte del testo babilonese noto come Epica della creazione si legge che la prima “Porta degli dèi” fu costruita a Babilonia dagli dèi stessi. Agli Anunnaki, gli dèi comuni, venne ordinato di
Costruire la Porta degli Dèi…
Modellate una struttura in muratura
Il suo shem starà nel luogo designato.
Per due anni gli Anunnaki lavorarono – «usarono gli attrezzi… diedero forma ai mattoni» – finché «innalzarono l’alta cima di Eshagila» (“casa dei Grandi Dèi”) e «costruirono la torre alta come l’alto Cielo».
Si trattò quindi di una sfrontatezza da parte del genere umano costruire la propria torre di lancio in un punto originariamente utilizzato dagli dèi per i loro scopi, dal momento che il nome di quel luogo – Babili – significava letteralmente “Porta degli Dèi”.
Vi sono altre prove a conferma del racconto biblico e della nostra interpretazione di esso?
Il sacerdote e storico babilonese Beroso, che nel III secolo a. C. scrisse una storia del genere umano, affermò che i «primi abitatori di quella terra, che si vantavano della propria forza,… intrapresero la costruzione di una torre la cui “cima” doveva arrivare fino al cielo». Ma la torre venne rovesciata dagli dèi e dai forti venti «e gli dèi introdussero lingue diverse tra gli uomini che fino a quel momento avevano parlato tutti la stessa lingua». George Smith (The Caldean Account of Genesis, «Il racconto caldeo della Genesi») trovò tra gli scritti dello storico greco Esteo la notizia che, secondo “antiche tradizioni”, le genti che erano sfuggite al Diluvio arrivarono a Senaar, presso Babilonia, ma se ne dovettero andare a causa della diversità delle lingue. Lo storico Alessandro Polistore (I secolo a. C.) scrisse che originariamente tutti gli uomini parlavano la stessa lingua. Poi alcuni cominciarono a costruire una torre altissima per poter “salire al cielo”. Ma il capo degli dèi mandò a monte il loro progetto inviando una tempesta di vento; e a ogni tribù fu data una lingua diversa. «La città dove ciò avvenne era Babilonia».
Non c’è dubbio, ormai, che i racconti biblici, come pure le cronache degli storici greci di 2.000 anni fa e del loro predecessore Beroso, derivano tutti da una fonte – sumerica - più antica. In tutte le versioni il tentativo di arrivare fino al cielo e la successiva confusione delle lingue sono elementi base del racconto.
Una stele sumerica custodita oggi al Louvre di Parigi sembra fornire una rappresentazione convincente dell’episodio biblico. La stele fu fatta costruire verso il 2300 a. C. da Naram-Sin, re di Akkad, e gli studiosi hanno sempre pensato che essa raffigurasse il re vittorioso sui suoi nemici. Ma la grande figura centrale porta in testa un copricapo ornato di corna, segno distintivo, come ormai sappiamo, degli dèi: si tratta quindi di un dio, non di un re umano. Inoltre, questo personaggio, molto più grande degli altri uomini che compaiono sulla stele, non ha proprio l’aria di essere il loro capo; anzi, sembra quasi che li schiacci sotto i suoi piedi. Quanto agli uomini, non sembrano impegnati in un’impresa bellica, ma paiono piuttosto marciare o star fermi in adorazione di quello stesso oggetto conico al quale è rivolto anche lo sguardo del dio. Armato di arco e lancia, il dio sembra guardare all’oggetto con aria minacciosa piuttosto che adorante.
L’oggetto conico sembra toccare tre corpi celesti. Se si tratta di uno shem, come parrebbero indicare le sue dimensioni, la forma e la funzione, allora la scena rappresenta probabilmente una divinità furiosa e armata fino ai denti che calpesta gli uomini che stanno festeggiando la costruzione di unoshem. La morale, dunque, nei testi mesopotamici come nel racconto biblico, è sempre la stessa: le macchine volanti erano fatte per gli dèi, non per gli uomini. Questi potevano salire alla dimora celeste solo per espresso desiderio degli dèi. E non mancano, sotto questo profilo, racconti che parlano di ascese al cielo e persino di viaggi spaziali.
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L’Antico Testamento narra l’ascesa al cielo di numerosi esseri umani.
Il primo è Enoch, un patriarca dell’era antidiluviana prediletto da Dio, tanto da “camminare con il Signore”. Egli era il settimo patriarca della linea di Adamo e il bisnonno di Noè, l’eroe del Diluvio. Il quinto capitolo del Libro della Genesi elenca la genealogia di tutti questi patriarchi precisando l’età in cui ciascuno di loro morì, tranne quella di Enoch, «che se ne era andato, perché il Signore l’aveva preso». Secondo l’interpretazione tradizionale, Dio aveva portato via Enoch perché questi ottenesse l’immortalità. Un altro mortale che ebbe il privilegio di salire al cielo è il profeta Elia, che fu sollevato da terra da un “turbine” di vento.
C’è poi un terzo mortale, meno conosciuto, che, sempre secondo l’Antico Testamento, si recò alla dimora celeste e ne ricevette in dono grande saggezza. Si tratta di un re di Tiro, città fenicia sulla costa del Mediterraneo orientale. Nel capitolo 28 del Libro di Ezechiele si legge che il Signore ordinò al profeta di ricordare al re che, se egli era perfetto e saggio, era perché la Divinità gli aveva permesso di andare a visitare gli dèi:
Tu sei stato plasmato secondo un piano,
pieno di saggezza, perfetto in bellezza.
Tu sei stato nell’Eden, il giardino di Dio;
ogni pietra preziosa era il tuo bosco sacro…
Tu sei un cherubino consacrato, protetto;
e io ti ho posto sulla sacra montagna;
come se tu fossi un dio,
che si muove tra le Pietre Fiammeggianti.
Il Signore predisse quindi che il re di Tiro sarebbe comunque morto della morte “dei non circoncisi” per opera di una mano straniera, anche se avesse gridato «Io sono un dio», e spiegò anche il perché: dopo aver avuto accesso alla dimora divina e aver acquisito ogni sapienza e ricchezza, il suo cuore “si era riempito di orgoglio”, egli aveva mal utilizzato il dono della saggezza e aveva contaminato i templi.
Perché il tuo cuore si è insuperbito
E tu hai detto «Io sono un dio;
mi sono seduto nella Dimora della Divinità,
nel mezzo delle acque»;
Anche se sei un uomo, non un dio,
hai inorgoglito il tuo cuore come quello di una divinità.
Anche i testi sumerici parlano di diversi mortali che ebbero il privilegio di salire al cielo. Uno di essi fu Adapa, l’”uomo modello” creato da Ea. Questi «gli aveva dato la saggezza, ma non gli aveva dato la vita eterna». Con il passare degli anni, Ea decise di strappare Adapa al suo destino mortale fornendogli uno shem con il quale raggiungere la dimora celeste di Anu e ricevere il Pane della Vita e l’Acqua della Vita. Quando Adapa arrivò alla dimora celeste, Anu volle sapere chi gli aveva fornito lo shem per arrivare da lui.
Tanto i testi mesopotamici quanto quelli biblici riguardanti questi rari casi di ascesa di un mortale alla dimora degli dèi contengono elementi importanti. Anche Adapa, come il re di Tiro, era fatto di una “pasta” perfetta. Tutti avevano dovuto servirsi di uno shem – una “pietra fiammeggiante” – per raggiungere l’Eden, dopodiché alcuni erano tornati sulla Terra, mentre altri, come l’eroe mesopotamico del Diluvio, era rimasto a godersi la compagnia degli dèi.
Fu appunto per trovare questo “Noè” mesopotamico e ottenere da lui il segreto dell’Albero della Vita che il sumero Gilgamesh partì per il suo epico viaggio.
La vana ricerca dell’Albero della Vita da parte dell’uomo mortale costituisce l’argomento di uno dei più lunghi e interessanti testi epici lasciati alla cultura umana dalla civiltà sumerica. “L’epica di Gilgamesh” come l’hanno chiamata gli studiosi moderni, racconta la storia dell’omonimo re di Ur, nato da padre mortale e da madre divina e perciò considerato “per due terzi dio e per un terzo uomo”, una circostanza che lo portò a cercare in tutti i modi di sfuggire al destino mortale degli uomini.
Essendo a conoscenza della tradizione dei padri, Gilgamesh sapeva che uno dei suoi antenati, Utnapishtim – l’eroe del Diluvio – era scampato alla morte ed era stato trasportato alla dimora celeste insieme alla sua sposa. Egli decise quindi di raggiungere quel luogo e di ottenere dal suo antenato il segreto della vita eterna.
Il “viaggio lontano” di Gilgamesh era, naturalmente, quello verso la dimora degli dèi; lo accompagnava il suo amico Enkidu. I due erano diretti alla Terra di Tilmun, dove Gilgamesh avrebbe potuto innalzare uno shemper sé. Le traduzioni correnti usano il solito “nome” per rendere il sumerico mu o l’accadico shumu che compaiono nei testi antichi; noi, invece, useremo la parola shem, per chiarire meglio il vero significato del termine, ovvero “veicolo celeste”.
Il sovrano Gilgamesh
Verso la Terra di Tilmun rivolse la mente.
E disse al suo compagno Enkidu:
«O Enkidu…
Vorrei entrare in quella Terra, innalzare il mio shem…
Nei luoghi dove vennero innalzati gli shem
Io voglio innalzare il mio».
Non riuscendo a dissuaderlo, sia gli anziani di Uruk sia gli dèi che Gilgamesh consultò gli consigliarono di ottenere prima il consenso e l’assistenza di Utu/Shamash. «Se vuoi davvero entrare in quella Terra, informa Utu», gli dissero. «É Utu che si occupa di quella Terra», continuavano a ripetergli. Alla fine Gilgamesh si risolse a chiedere il permesso a Utu:
Lasciami entrare in quella Terra,
lasciami innalzare il mio shem.
Nei luoghi dove vengono innalzati gli shem
Fa’ che io possa innalzare il mio.
Portami al luogo dell’atterraggio a…
Poni su di me la tua protezione!
Purtroppo una lacuna nella tavoletta ci impedisce di capire quale fosse il “luogo dell’atterraggio”. Dovunque fosse, comunque, alla fine Gilgamesh e il suo compagno vi si avvicinarono. Era una “zona vietata”, protetta da imponenti guardiani. Stanchi e assonnati, i due amici decisero di fermarsi a riposare per la notte e di riprendere il viaggio il giorno dopo.
Si erano appena addormentati quando qualcosa li scosse e li svegliò. «Mi hai svegliato tu?» chiese Gilgamesh al suo compagno. «Ma sono sveglio?», si domandò, poiché vedeva cose insolite, talmente straordinarie che non sapeva più se era desto o stava sognando. Disse allora a Enkidu:
Nel mio sogno, amico mio, la terra si rovesciò.
E mi trascinò in basso, imprigionandomi i piedi…
Tutto era avvolto da una luce violenta!
Poi comparve un uomo,
che era il più bello della terra.
La sua grazia…
Egli mi trasse fuori dal terreno caduto.
Mi diede acqua da bere; il mio cuore si acquietò
Chi era dunque quest’uomo , “il più bello della terra”, che tirò fuori Gilgamesh dal terreno franato, gli diede dell’acqua, “acquietò il suo cuore”? E che cos’era quella “luce violenta” che accompagnava quella strana frana?
Incerto, turbato, Gilgamesh tornò ad addormentarsi, ma non per molto.
Sentendosi misteriosamente svegliato, dunque, Gilgamesh si domandò chi mai l’avesse toccato: se non era stato l’amico, era forse l’opera di qualche dio passato lì vicino? Ancora una volta Gilgamesh si addormentò, e di nuovo, per la terza volta, si svegliò, e descrisse all’amico l’inquietante visione che aveva avuto.
Ciò che ho visto è stato davvero spaventoso.
I cieli stridevano, la terra tuonava;
la luce del giorno si spense e sopraggiunse l’oscurità.
Balenò un lampo, apparve una fiamma.
Le nubi si gonfiarono, piovve morte!
Poi la gran luce svanì; il fuoco si spense,
E tutto ciò che era caduto si era trasformato in cenere.
Non occorre una grande immaginazione per vedere in questi versi il resoconto del lancio di un razzo. Anzitutto il fortissimo rumore provocato dall’accensione dei motori («i cieli stridevano»), accompagnato dallo scuotimento della terra («la terra tuonava»). Nuvole di fumo e polvere avvolsero il luogo del lancio («la luce del giorno si spense e sopraggiunse l’oscurità»), prima del bagliore diffuso dai motori accesi («balenò un lampo»); quando poi il razzo cominciò a salire verso il cielo, «apparve una fiamma». La nube di polvere e di detriti «si gonfiò» e poi incominciò a ricadere, e «piovve morte!». Il razzo era ormai alto nel cielo e puntava sempre più su («la gran luce svanì; il fuoco si spense») fino a scomparire dalla vista; e i detriti che erano caduti «si erano trasformati in cenere».
Spaventato da ciò che aveva visto, e tuttavia più deciso che mai a raggiungere la sua destinazione, Gilgamesh si rivolse ancora una volta a Shamash per ottenerne protezione e sostegno. Dopo aver sopraffatto un “guardiano mostruoso”, egli raggiunse la montagna di Mashu, da dove si poteva vedere Shamash “salire alla volta del cielo”.
Il suo primo obiettivo – il “luogo dove vengono innalzati gli shem” – era ormai a portata di mano, ma l’ingresso, che sembrava scavato nella montagna, era anch’esso custodito da feroci guardiani:
Essi incutono grande terrore,
hanno uno sguardo di morte.
Il loro fulgido cerchio di luce spazza le montagne.
Essi vegliano su Shamash
Mentre questi sale e scende.
Quando Gilgamesh spiegò la sua origine parzialmente divina, lo scopo del suo viaggio («Voglio domandare a Utnapishtim della vita e della morte») e il fatto che aveva l’autorizzazione di Utu/Shamash, le guardie gli permisero di proseguire.
Gilgamesh riprese allora “la strada di Shamash”, ma si ritrovò nella più fitta oscurità; “non vedendo niente né avanti né indietro”, gridò per la paura. Dopo aver viaggiato per molti beru (un’unità di tempo o di distanza, o il cosiddetto “arco dei cieli”) era ancora immerso nel buio, finché «quando ebbe raggiunto dodici beru, era ormai tornata la luce».
Il testo, lacunoso e alquanto confuso, continua poi con Gilgamesh che arriva in un magnifico giardino dove frutti e alberi erano scavati all’interno di pietre semi-preziose. É qui che abitava Utnapishtim. All’udire le domande di Gilgamesh, rispose in maniera deludente: l’uomo, disse Utnapishtim, non può sfuggire al suo destino mortale. Gli offrì però un modo di rimandare la sua morte, rivelandogli l’ubicazione della Pianta della Giovinezza, che si chiamava “L’uomo diventa giovane nella vecchiaia”. Trionfante, Gilgamesh si procurò subito la pianta, ma, com’era destino, la perse scioccamente nel viaggio di ritorno, e così se ne tornò a Uruk a mani vuote.
Mettendo da parte il valore letterario e filosofico del racconto, la storia di Gilgamesh ci interessa anzitutto per i suoi aspetti “aerospaziali”. Lo shemche gli serviva per andare nella dimora degli dèi era senza dubbio una navicella spaziale, una di quelle che aveva visto partire quando si era fermato nel “luogo dell’atterraggio”. I razzi, a quanto sembra, si trovavano all’interno di una montagna, e tutta la zona era “off limits”, sorvegliata a vista.
Nessuna rappresentazione artistica di ciò che Gilgamesh vide è ancora venuta alla luce, ma un dipinto trovato nella tomba del governatore egizio di una terra lontana mostra la testata di un razzo che fuoriesce dalla terra, in un luogo dove crescono palme da dattero. Il resto del razzo si trova chiaramente sottoterra, in una struttura artificiale fatta di segmenti tubolari e decorata con pelli di leopardo.
TIL.MUN si chiamava la terra verso cui si era diretto Gilgamesh, ovvero, letteralmente, “la terra dei missili”. Era la terra dove si innalzavano glishem, una terra posto sotto l’autorità di Utu/Shamash e dove si poteva vedere il dio “ascendere alla volta celeste”.
E anche se il corrispondente celeste di questo menbro del Pantheon dei Dodici era il Sole, noi riteniamo che il suo nome non significasse “Sole”, ma che fosse un epiteto indicante le funzioni e le responsabilità del dio. Il suo nome sumerico, Utu, significava “colui che entra risplendendo”, mentre il derivato accadico Shem-Esh, era più che esplicito: Esh vuol dire “fuoco”, e shem… beh, ormai sappiamo bene che cosa significava originariamente!
Utu/Shamash era dunque “quello delle fiammeggianti navicelle a razzo”. Era, suggeriano noi, il comandante del porto spaziale degli dèi.
Il ruolo primario che Utu/Shamash rivestiva in tutto ciò che riguardava i viaggi alla dimora celeste degli dèi e le funzioni svolte dai suoi subordinati a tale riguardo si ritrovano con ulteriore dovizia di dettagli in un altro racconto sumerico che narra l’ascesa al cielo di un mortale.
Dall’elenco dei re sumeri sappiamo che il tredicesimo sovrano di Kish era Etana, “colui che ascese al Cielo”. Questa lapidaria affermazione non aveva bisogno di alcuna elaborazione o spiegazione, poiché la storia del re mortale che era salito al cielo era ben conosciuta in tutto l’antico Medio Oriente, come dimostrano le numerose raffigurazioni artistiche che illustrano questo soggetto.
Secondo la tradizione Etana era stato incaricato dagli dèi di portare al genere umano sicurezza e prosperità, ovvero quelle caratteristiche che contraddistinguono una civiltà organizzata. Ma Etana, a quanto sembra, non poteva avere un figlio maschio che continuasse la dinastia; l’unico rimedio che si conoscesse era una certa Pianta della Nascita, che Etana doveva però andare a prendere in cielo.
Come avrebbe fatto in seguito Gilgamesh, Etana si rivolse a Shamash per ottenerne permesso e assistenza; se leggiamo bene il seguito del racconto, risulta chiaro che ciò che Etana chiedeva a Shamash era unoshem!
O Signore, possa uscire dalla tua bocca!
Dammi la Pianta della Nascita!
Mostrami la Pianta della Nascita!
Soccorri le mie scarse capacità!
Concedimi di avere uno shem.
Lusingato dalle preghiere e dall’agnello che il re aveva sacrificato in suo onore, Shamash acconsentì alla richiesta di fornire a Etana uno shem. Ma invece di parlare di uno shem, gli disse che a portarlo in cielo sarebbe stata un’”aquila”.
Shamash indicò dunque a Etana la fossa in cui era stata posta l’Aquila e poi informò quest’ultima in anticipo della missione che si profilava. In uno scambio di enigmatici messaggi tra l’Aquila e “Shamash , il suo signore”, questi le disse: «Ti manderò un uomo; egli prenderà la tua mano… guidalo… fa’ tutto ciò che ti dirà… fa’ come ti dico».
Arrivato alla montagna che gli aveva indicato Shamash, «Etana vide la fossa» e, all’interno di essa, vide l’Aquila. «Guidata dal valoroso Shamash», l’Aquila entrò in contatto con Etana; questi gli spiegò ancora una volta la destinazione e lo scopo della missione, dopodiché l’Aquila cominciò a insegnargli il procedimento per sollevarla dalla fossa. I primi due tentativi non riuscirono, ma al terzo tentativo l’Aquila si sollevò da terra senza difficoltà. Appena spuntò il giorno, l’Aquila annunciò a Etana: «Amico mio… al Cielo di Anu ti porterò!». E, dopo avergli insegnato come fare per reggersi, partì – e in un attimo erano in alto, e salivano sempre di più.
Il narratore descrive poi la Terra che appare a Etana sempre più piccola, e sembra quasi di leggere il racconto di un moderno astronauta che dalla sua navicella vede la Terra allontanarsi:
Quando furono saliti di un beru,
l’Aquila dice a Etana:
«Guarda amico mio, come appare la terra!
Guarda il mare ai lati della Casa della Montagna:
La Terra è diventata come una semplice collina,
la distesa del mare sembra una piccola pozza».
L’Aquila saliva sempre più in alto, e la Terra appariva sempre più piccola. Quando furono saliti di un altro beru, l’Aquila disse:
«Amico mio,
da’ un’occhiata e guarda come appare la terra!
La terra si è trasformata in un solco…
La distesa del mare è ormai ridotta a un cestino per il pane»…
E quando l’ebbe portato su di un terzo beru,
l’Aquila disse a Etana:
«Guarda amico mio, come appare la terra!
Sembra trasformata in un fossato da giardiniere!»
Finchè a un certo punto, dopo essere saliti ancora, la Terra scomparve improvvisamente dalla vista.
Mi guardai intorno e la terra era scomparsa,
i miei occhi non poterono posarsi
sull’ampia distesa del mare.
Secondo una versione del racconto, L’Aquila ed Etana raggiunsero il Cielo di Anu. Ma un’altra versione afferma che Etana si sentì gelare quando non vide più la Terra e ordinò all’Aquila di invertire la rotta e di “gettarsi a capofitto” verso la Terra.
Ancora una volta, questa insolita descrizione della Terra vista dall’alto, da grande distanza, trova una corrispondenza in un passato biblico. Nell’esaltare il Signore Yahweh, il profeta Isaia disse di lui: «É colui che siede sul cerchio della Terra e da lì vede i suoi abitanti grandi come insetti».
Il racconto di Etana, come abbiamo visto, ci dice che, cercando uno shem, Etana dovette comunicare con un’Aquila posta in una fossa. Un sigillo raffigura invece una struttura alta e munita di ali (forse una rampa di lancio?) dalla quale prende il volo un’aquila.
Che cos’era, dunque, o chi era l’Aquila che condusse Etana nei cieli?
Millenni dopo –nel luglio del 1969 – Neil Armstrong, comandante della navetta Apollo 11, comunicò alla base il felice esito del primo atterraggio dell’uomo sulla Luna con la frase: «Houston, l’Aquila è atterrata!». Aquilaera il nome del modulo lunare che, staccatosi dalla navetta, portò sulla Luna i due astronauti che vi stavano dentro (e poi li riportò alla navetta). Quando il modulo lunare si separò per la prima volta per cominciare il suo volo nell’orbita della Luna, gli astronauti dissero al Centro di Controllo di Houston: «L’Aquila ha le ali». Ma il termine “Aquila” poteva indicare anche gli astronauti che si trovavano a bordo della navetta. Nella missione Apollo 11, “Aquila” era anche il simbolo degli astronauti stessi, che ne portavano l’emblema cucito sulle tute. Proprio come nel racconto di Etana, dunque, anch’essi erano Aquile che potevano volare, parlare e comunicare.
A questo punto è lecita una domanda: se un artista antico avesse dovuto rappresentare i piloti delle navicelle spaziali divine, in che modo lo avrebbe fatto? Forse raffigurandoli come aquile?
La risposta, almeno sulla base di ciò che è stato trovato, è un sì: un sigillo assiro databile al 1500 a. C. circa mostra due “uomini-aquila” che salutano uno shem.
Sono state ritrovate numerose rappresentazioni di “Aquile” ( o “uomini uccello”, come li chiamano gli studiosi) di questo genere, per lo più poste vicino all’Albero della Vita, a indicare che sono proprio loro, con il loroshem, a consentire il legame con la dimora celeste dove si trovano il Pane della Vita e l’Acqua della Vita. Anzi, in tali raffigurazioni solitamente le Aquile tengono in una mano il Frutto della Vita e nell’altra l’Acqua della Vita, in pieno accordo con quanto raccontano le storie di Adapa, Etana e Gilgamesh.
L’aspetto di queste aquile, quale appare dalle numerose rappresentazioni artistiche venute alla luce, non è mai quello di mostruosi “uomini-uccello”, bensì di esseri antropomorfi che indossano costumi o uniformi che li fanno assomigliare ad aquile.
La leggenda ittita della scomparsa del dio Telepinu racconta che «i grandi dèi e gli dèi minori cominciarono a cercare Telepinu» e che «Shamash inviò un’Aquila veloce» per trovarlo.
Nel Libro dell’Esodo, si dice che Dio ricordò ai figli d’Israele che «Io vi ho condotto sulle ali delle Aquile e vi ho portato da me», confermando, dunque, che solo con le ali delle Aquile si poteva raggiungere la dimora divina, proprio come ci dice la storia di Etana.
I testi mesopotamici presentano sempre Utu/Shamash come il dio protettore del campo di atteraggio degli shem e delle Aquile. Come i suoi assistenti, poi, anch’egli veniva talvolta raffigurato con indosso il costume di un’Aquila.
Grazie a questa sua funzione, egli poteva garantire ai re il privilegio di “volare sulle ali degli uccelli” e di “innalzarsi dai cieli più bassi a quelli più alti”. E quando veniva lanciato in alto a bordo di un razzo fiammeggiante, era colui «che viaggiava per distanze sconosciute, per un tempo senza fine».
.
La terminologia sumerica per indicare gli oggetti connessi al volo celeste non si limitava al me indossato dagli dèi o al mu rappresentato dai loro “carri” conici. I testi sumerici che descrivono la città di Sippar ci dicono che essa aveva una parte centrale nascosta e protetta da mura possenti, al cui interno si trovava il tempio di Utu, “una casa simile a una casa nei cieli”. In un cortile interno del tempio, anch’esso protetto da alte mura, stava «eretto verso l’alto, il possente APIN» (“un oggetto che si apre da sé la via”, secondo i traduttori). Un disegno trovato presso la collina del tempio del dio Anu a Uruk rappresenta tale oggetto:
Qualche decennio fa avremmo avuto non poche difficoltà a capire di cosa si trattava, ma oggi sappiamo che esso è un razzo spaziale a diversi comparti, in cima al quale sta il conico mu, o cabina di comando.
Le prove che gli dèi di Sumer possedessero non soltanto “camere volanti” per aggirarsi nei cieli più vicini alla Terra, ma anche vere e proprie navicelle a razzo a diversi comparti emerge anche dall’esame dei testi che descrivono gli oggetti sacri del tempio di Utu a Sippar. Vi si dice infatti che alla corte suprema di Sumer i testimoni dovevano prestare giuramento in un cortile interno, vicino a una porta attraverso la quale potevano vedere tre “oggetti divini”: la “sfera d’oro” (forse la cabina dell’equipaggio?), il GIR e l’alikmahrati, un termine che letteralmente significa “avanzatore che fa muovere il veicolo”, cioè quello che noi oggi chiameremmo motore.
É più che probabile che ci troviamo di fronte a un riferimento alle tre parti di una navicella a razzo, con la cabina a modulo di comando a una estremità, i motori all’altra estremità e il gir al centro. Quest’ultimo era un termine molto utilizzato con riferimento a voli spaziali. Le guardie che Gilgamesh incontrò presso “il luogo di atterraggio” di Shamash erano chiamati uomini-gir; nel tempio di Ninurta, l’area interna sacra, la più sorvegliata, si chiamava GIR.SU (“dove compare il gir“). É ormai universalmente riconosciuto che gir era un termine utilizzato per descrivere un oggetto appuntito. Uno sguardo attento alla rappresentazione pittorica del termine ci consente di capire meglio la sua natura “divina”: ciò che vediamo, infatti, è un oggetto allungato, a forma di freccia, suddiviso in diverse parti scompartimenti:
Il fatto che il mu potesse rimanere sospeso da solo nei cieli più vicini alla Terra, o volare sopra la terraferma quando era attaccato a un gir, o ancora diventare il modulo di comando di un apin a comparti plurimi testimonia l’alto livello di ingegneria che gli dèi di Sumer, gli Dèi del Cielo e della Terra, avevano raggiunto.
A questo punto, se riguardiamo l’insieme dei pittogrammi e degli ideogrammi sumerici, non possiamo più avere dubbi sul fatto che chiunque abbia tracciato quei segni conosceva bene forme e funzioni dei razzi e delle relative scie di fuoco, dei veicoli simili a missili e delle “cabine” celesti.
KA.GIR (“bocca del razzo”)
indicava un gir o razzo pinnato, contenuto in una struttura sotterranea simile a un pozzo.
ESH (“dimora divina”)
era la camera o modulo di comando di un veicolo spaziale
ZIK (“ascendente”)
Era forse un modulo ascendente in fase di decollo?
Diamo un’occhiata, infine, al segno pittografico che indicava gli “dèi” in lingua sumerica. La parola era composta da due sillabe: DIN.GIR. Abbiamo già visto che cosa significava il simbolo di GIR: un razzo pinnato a due comparti. DIN, la prima sillaba, significava “virtuoso”, “puro”, “luminoso”. Unite, dunque, le due sillabe DIN.GIR indicavano il concetto di “virtuosi degli oggetti luminosi, appuntiti”, o, più esplicitamente, “i puri dei razzi fiammeggianti”.
Questo era il segno pittografico per din:
Viene subito in mente un motore a reazione che sprigiona fiamme dalla parte posteriore, mentre quella anteriore è stranamente aperta. Proviamo ora a “scrivere” dingir combinando i due segni pittografici: scopriremo che la coda del gir pinnato si inserisce perfettamente nell’apertura frontale deldin!
Ed ecco dunque lo sbalorditivo risultato: ci troviamo davanti a una vera navetta spaziale con razzo propulsore, munita di un modulo di atterraggio perfettamente agganciato: un meccanismo, dunque, non dissimile da quello dell’Apollo 11! Si tratta di un veicolo a tre comparti collegati fra loro: il comparto propulsore contiene i motori, quello centrale i viveri e gli equipaggiamenti, mentre la conica “camera del cielo” ospita gli individui chiamati dingir, gli dèi dell’antichità, gli astronauti di tanti millenni fa.
A questo punto, possiamo avere ancora dei dubbi sul fatto che quando i popoli antichi parlavano dei loro Dèi del Cielo e della Terra intendevano riferirsi letteralmente a individui in carne e ossa, che erano scesi sulla Terra dal cielo?
Persino gli antichi compilatori dell’Antico Testamento, che dedicarono la Bibbia a un unico Dio, ritennero necessario ammettere la presenza sulla Terra, in tempi antichissimi, di tali entità divine.
La parte più problematica, quella che ha fatto inorridire traduttori e teologi, è l’inizio del sesto capitolo della Genesi. Il brano si colloca tra il resoconto del diffondersi dell’umanità attraverso le generazioni successive ad Adamo e la storia del risentimento divino nei confronti del genere umano immediatamente prima del Diluvio universale. Vi si afferma, inequivocabilmente, che a quel tempo
I figli degli dèi
Videro le figlie dell’uomo e le trovarono belle;
E presero per mogli
Quelle che piacquero loro più di tutte.
Le implicazioni di questi versi e il parallelismo con i racconti sumerici sugli dèi, i loro figli e nipoti e sulla prole semidivina derivante dalla coabitazione tra dèi e mortali si fa ancora più evidente quando continuiamo nella lettura dei versi biblici:
I Nefilim erano sulla Terra,
in quei giorni e anche dopo,
quando i figli degli dèi
vivevano insieme alle figlie di Adamo,
e concepivano figli con esse.
Essi erano i potenti di Eternità –
Il popolo dello shem.
Quella che abbiamo proposto non è la traduzione tradizionale del passo biblico. Per molto tempo, infatti, l’espressione « I Nefilim erano sulla Terra» è stato tradotta con «Vi erano dei giganti sulla Terra»; traduttori più recenti, poi, riconoscendo l’errore, hanno pensato di risolvere ogni problema lasciando nella traduzione l’originario termine ebraico Nefilim. Quanto poi al verso «Il popolo dello shem», non c’è da stupirsi che sia stato sempre tradotto con «il popolo che ha un nome», cioè «il popolo famoso»; come abbiamo appena dimostrato, invece, il termine shem va preso nel suo significato originario – un razzo, una navicella a razzo.
Che cosa significa, allora, il termine Nefilim? Derivato dalla radice semitica NFL (“essere gettato giù”), significa esattamente ciò che dice:coloro che sono stati gettati sulla Terra!
Esegeti biblici e teologi contemporanei tendono a evitare questi scomodi versi, o spiegandoli allegoricamente o semplicemente ignorandoli. Al contrario, alcuni scritti ebraici dell’epoca di Secondo Tempio riconoscono in questi versi un’eco di antiche tradizioni riguardanti gli “angeli caduti”. In qualche caso troviamo addirittura i nomi di queste entità divine «che caddero dal Cielo e furono sulla Terra in quei giorni»: Sham-Hazzai (“vedetta dello shem“), Uzza (“possente”) e Uzi-El (“potere di Dio”).
Malbim, un illustre commentatore biblico ebreo del XIX secolo, riconobbe queste antiche radici e spiegò che «anticamente i sovrani dei loro paesi erano i figli delle divinità che arrivarono sulla Terra dal Cielo, ed essi governarono la Terra e sposarono le figlie dell’uomo; e tra i loro discendenti si trovano eroi e uomini potenti, principi e sovrani». Tali storie, diceva Malbim, riguardavano gli dèi pagani, «figli delle divinità che in quei tempi antichissimi caddero dal Cielo sulla Terra… ed è per questo che si chiamavano “Nefilim”, cioè “coloro che caddero giù”».
Indipendentemente dalle implicazioni teologiche, non si può cancellare il significato originario e letterale di questi versi: i figli degli dèi che vennero sulla Terra dal Cielo erano i Nefilim.
E i Nefilim erano il popolo dello Shem – il popolo delle navicelle a razzo.
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