Il 2012 è un anno importante da annoverare tra i miei ricordi perché ha visto il ritorno di alcune delle più rappresentative icone femminili del rock degli anni passati: Shirley Manson con i Garbage, Gwen Stefani con i No Doubt, Dolores O’Riordan con i Cranberries, Alanis Morissette, ed infine Skin con gli Skunk Anansie, la band inglese presente da vent’anni nel panorama musicale, tra alti e bassi, che ha pubblicato il secondo album in studio dopo la reunion del 2009 (il quinto in totale). Il nuovo lavoro della formazione britannica si intitola Black Traffic ed è uscito lo scorso 25 settembre, prodotto con etichetta indipendente. Alla presentazione del disco, Skin, leader del quartetto, ha spiegato come è nato l’album e in particolare il titolo; queste le sue parole: «L’album è stato realizzato nell’arco di un anno e mezzo, un periodo in cui sono avvenuti molti fatti rilevanti – qui la cantante allude evidentemente alle rivolte in Grecia e Spagna, ad Occupy Wall Street e ad Occupy London, – tutte queste cose assieme ti danno l’idea che ci sia qualcosa che si muova nell’ombra, al di sotto della vita quotidiana, che ci sia un traffico nero, occulto, sotto quello superficiale noto alla gente comune». Risulta subito chiara l’impostazione del disco, pieno di tematiche politiche e sociali, da sempre presenti nel repertorio degli Skunk Anansie, ma che qui assumono nuova veste e risonanza. La loro sferzante polemica è rivolta ai politici, è una denuncia verso questa corrotta e inefficace classe. La voce di Deborah Dyer, vero nome di Skin, affascinante figura androgina ed estremamente carismatica, esprime tutto il risentimento di queste persone vessate: la sua voce rappresenta quella di tutti coloro che si ribellano e dicono basta al sistema. I brani contenuti nell’album scaturiscono dall’amara osservazione della situazione che stiamo vivendo; si tratta di undici tracce veloci, energiche, taglienti, che ci testimoniano lo status quo. Il ritmo è incalzante, martellante, a volte quasi eccessivamente stridente, tutto è troppo urlato, troppo furioso, frenetico, diretto e incontrollato; in Black Traffic convivono elementi propri dell’alternative rock, dell’alternative metal, dell’hard rock, del funk metal, dell’heavy metal e dell’electro dance.
Il disco potrebbe benissimo essere paragonato a fiamme che divorano presto l’ambiente circostante; per descriverlo risulta calzante l’espressione «mettere troppa carne al fuoco»; da un ascolto complessivo dell’album ho potuto notare che si è data più importanza alla forma che alla sostanza. Con questo cd il quartetto britannico mira a creare un ponte tra vecchio e nuovo modo di far musica; molte tracce ambiscono ad essere fedeli calchi delle hit degli anni precedenti, ma falliscono nell’intento. Mancano le sperimentazioni vere e proprie e abbondano le contaminazioni fra i generi (ciò è spiegato in parte dal lavoro di Skin anche come DJ). Non c’è alcuna sorpresa, musicalmente parlando: la band avrebbe potuto solcare i mari con un transatlantico ed invece si limita ad un’anonima barchetta. Come note positive, il fatto che ogni traccia reca una propria fisionomia e identità ben definite e l’intendere la musica come impegno sociale e dunque come mezzo per dire la propria sull’attuale scenario politico-economico. Delle undici tracce quelle più valide sono: I Believed in You primo singolo estratto e subito messo in rotazione dalle radio che ha ottenuto un buon successo divenendo una hit; si tratta di un brano dal riff coinvolgente, dal ritmo veloce, che ti prende; questa canzone è l’emblema della polemica contro il sistema che pervade tutto l’album; si concretizza l’opposizione ai politici che hanno tradito le aspettative dei propri elettori, ci si scaglia contro coloro che hanno portato l’Europa nel baratro economico finanziario.
Altra canzone valida è I Hope You Get to Meet Your Hero secondo singolo, vera e propria perla dell’intero disco, in cui la voce di Skin sembra ammorbidirsi, farsi caldissima, evocativa; è una ballad in cui hanno molto spazio i violini e il basso assieme alla voce: anche questo pezzo potrebbe aggiungersi al repertorio di hit della band. Risaltano anche I Will Break You, che apre il disco e si presenta come un buon biglietto da visita dando in anticipo informazioni su come saranno le altre canzoni. Qui protagonisti sono i suoni distorti, impetuosi e quasi irriverenti delle chitarre e gli acuti da pantera di Skin. Può essere considerato come il brano dove regna il rock allo stato puro. Spit You Out nasce dal connubio, perfettamente riuscito, tra rock ed elettronica. Our Summer Kills the Sun, Sad Sad Sad sono canzoni in cui domina la voce di Skin che sembra liberarsi più e più volte in urli liberatori. Tutta questa rabbia si attenua in altre ballate come Drowning o Diving Down, che chiude il lavoro; proprio in quest’ultima, dove dominano quasi a sorpresa la dolcezza e la malinconia, si dà spazio ad una parola chiave dell’intero album, la “speranza”. This Is Not a Game è il pezzo migliore di tutto il disco per l’amarezza e la malinconia trasmesse, in modo mirabile, dalla voce emozionante della cantante. Alla fine dell’ascolto mi sono accorta che il gruppo ha voluto suggerire una qualche speranza di cambiamento, e non si è voluto chiudere in una posizione pessimistica. Come affermato dalla rocker: «Semplice è alzare la testa e farsi sentire. Il messaggio che vogliamo portare è positivo, vogliamo far sì che la comunità possa capire e comprendere le proprie potenzialità. Il momento che viviamo è terribile ma la cosa positiva dell’essere umano è la possibilità di riscatto e di rinascita». Come affermava Platone: «Se cambia la musica, cambieranno anche le istituzioni» e io sono pienamente d’accordo con lui perché la musica e le altre arti possono realmente far prendere coscienza e cambiare il mondo.