Köhler non si ferma all’esposizione di queste schermaglie amorose, con l’introduzione dell’altro dottore, Alex Nzila, il nocciolo della pellicola sale a galla e così diventa lampante che il vero legame su cui bisogna concentrarsi non è quello tra le persone, bensì tra le singole persone e il continente nero. Attraverso una discreta valorizzazione della geografia (i tragitti lungo le strade dissestate) Köhler è bravo a portare in primo piano i differenti nessi tra l’Africa e i due dottori. Anche con un pizzico di ironia vengono rovesciati dei preconcetti diffusi, e quindi se Ebbo, uomo caucasico in tutto e per tutto è ormai completamente assorbito dalla realtà del luogo, Nzila, a prescindere dal colore della sua pelle, è uomo europeo (francese da una generazione come ripeterà) che fatica a penetrare nel vissuto camerunense (dal prezzo delle sigarette alla pipì fatta nella bottiglia per paura di uscire). Il film crea questo dialogo proficuo mantenendo comunque le distanze dalla sfera personale dei protagonisti, non c’è invadenza nel raccontare le loro vicissitudini, resta solo un po’ di compassione, di solito rivolta a bimbi con la pancia gonfia e gli occhi flagellati dagli insetti, mentre qui diretta a due scienziati, due occidentali, due bianchi: anche se uno non lo è.
Attraente il finale: immersione nella giungla, buio scalfito dai raggi delle torce, mdp che sfrigola ad ogni minimo movimento tra le frasche. A parte un piccolo appunto (come è possibile che Nzila riesca ad addormentarsi nel cuore della notte in una foresta equatoriale?), dalle ultime battute si svela quella parte dell’Africa che ancora non era stata toccata, quella fatta di feticci e di credenze, e dal nulla un ippopotamo che quatto quatto si inabissa sotto il pelo dell’acqua.