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Essere provincialotti, nell’accezione che andremo a considerare, non si manifesta nell’abbigliamento, o nella parlata, o nelle idee, o in qualsiasi altro dettaglio visibile o altrimenti percepibile nella persona presa in sé e da ferma.
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Essere provincialotti, nell’accezione che andremo a considerare, si manifesta nel momento in cui la persona in questione è presa e collocata all’interno di un veicolo privato in movimento, e questo veicolo si trova entro i confini comunali della città di riferimento…
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… e la sua posizione entro i confini succitati è sempre, intrinsecamente, circonfusa da un alone di dubbio sottile ma gelido.
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Essere provincialotti è un gene dominante; mio padre è di Milano, ma ah, fosse così semplice: mia madre no. E io sono nata fuori.
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Un po’ come per l’accento nelle lingue straniere, essere provincialotti è una condizione che può essere mitigata da un trapianto in età tenerissima del soggetto nell’ambiente cittadino.
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Essere provincialotti non inficia la capacità della persona di orientarsi a piedi, di usufruire della rete urbana dei mezzi pubblici, di stare zitta e composta in un veicolo condotto da persone competenti, addirittura di girare autonomamente fin quando è assistita da cartine, navigatori, mappe e simili.
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Il dramma, comunque sempre in agguato, si manifesta in tutta la sua compiutezza nel momento in cui uno degli occupanti del veicolo, generalmente non il guidatore, pronuncia la frase fatidica.
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Frase che è “Aaaah, perfetto. Da qui in poi la so.”
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Seguono smarrimenti, dedali di sensi unici, imbocchi accidentali di autostrade, ritorni a casa con tappe a Monza, Udine, Teramo, Belgrado, crisi di nervi, crisi di panico, crisi matrimoniali.
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Due provincialotti sono peggio di uno.
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(Milano è punteggiata di chiese moderne tutteuguali che non è il caso di assumere come punti di riferimento).
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