Rischiava di essere una copia sbiadita e pecoreccia di Breaking Bad, primo modello dichiarato e ribadito anche dai personaggi. Non è stato così, forse perché Smetto quando voglio non scimmiotta o (peggio) imita ingenuamente le serie TV americane, ma guarda alle radici del proprio genere e lo aggiorna, seppur senza brillare per originalità: la storia è proprio quella di un uomo che comincia a produrre e spacciare droga per necessità, come fa Walter White.
Scarnificato di tutti i dettagli che ne fanno un prodotto del 2014, però, il film è quasi – è presto per fare proclami del genere – una commedia all’italiana, alla maniera di Boris – di cui condivide mentalità e parte del cast – fino a due dei modelli che hanno ispirato il filone e vanno considerati due “pietre emiliane”, appunto: La banda degli onesti e I soliti ignoti. Il fulcro è sempre lo stesso: una combriccola di spiantati s’imbarca in un’impresa più grande di loro (e si perdoni l’errore grammaticale) e non sa più come uscirne. Superando le prime difficoltà – trovare fondi e luogo per far nascere la start-up –, questi giovani adulti accarezzano il successo – gli “esperimenti” in discoteca – e cominciano a sguazzarci dentro, nonostante le reciproche promesse di non cambiare tenore di vita. È inevitabile che perdano il controllo della loro creatura, accumulando bugie e rischiando di perdere gli affetti, il lavoro – per i pochi che ce l’hanno – e soprattutto loro stessi.
Un occhio alla critica sociale, presente ma scanzonata e ormai lessico troppo familiare per una parte del pubblico, e uno alla solidità della sceneggiatura; uno alla caratterizzazione dei personaggi, in equilibrio tra la macchietta e l’oggetto tridimensionale, e uno alle gag e alle battute a effetto. Un ottimo metodo per raccontare la fuga verso lo stipendio di questi ricercatori, in modo divertente e leggero, ché tanto basta il tema e la sua triste vicinanza all’esperienza quotidiana per suscitare l’amarezza, necessaria al giusto mix di sapori e odori che un film deve emanare per non essere sdolcinato, troppo stagionato o acerbo. Sembra che la commedia ci riesca bene: dovremmo continuare a scrivere guardandoci allo specchio, semplicemente riversando sulla carta quello che le nostre cronache ci offrono. Sembra più difficile rispetto agli anni ’50, dove un assetto più manicheo della società permetteva una satira più pungente, ma nemmeno oggi manca la materia prima. Purtroppo per la società, ma per fortuna del cinema.
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