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Snowpiercer: il “treno” è la vita, oppure no?

Creato il 05 marzo 2014 da Emeraldforest @EmeraldForest2

Snowpiercer, recensione

Uno dei film più attesi e apprezzati della VIII Festa Internazionale del Cinema di Roma, Snowpiercer di Joon-Ho Bong non delude assolutamente le alte aspettative, al contrario le rilancia rivelandosi una pellicola in grado di trattare – e con cognizione di causa – alcune delle più grandi questioni più controverse della società, cultura, stile di vita occidentali e non solo.

Si tratta dunque di un’eccellente prova da parte di Joon Ho Bong (The Host, Mother) come regista e del famosissimo Chan-wook Park come produttore, il quale ha visto davvero lungo nell’imbarcarsi in questo progetto che è diventato il primo film coreano campione al box office distribuito praticamente in tutto il mondo (oltre 167 paesi).

Il cuore letteralmente pulsante di tutto è il treno di lusso ad alta velocità Snowpiercer che appunto dà il nome al film e che offre una metafora semplicemente geniale (traslata dal fumetto francese Transperceneige) e perfettamente calzante di una società a compartimenti stagni in cui i poveri muoiono di freddo, e sono costretti a lungo a farsi la guerra tra loro, mentre i ricchi sguazzano allegramente nei piaceri e lussi più inutili. Fuori dal treno, il nostro mondo totalmente ghiacciato e innevato a causa di un folle tentativo di combattere chimicamente il global warming. Fuori dal treno, che ha un motore perpetuo come la macchina industriale-capitalistica, aleggia il fantasma della morte per isolamento e fame soprattutto, concretizzato da rottami di aereo tra la neve montana che non possono che richiamare alla memoria la tragedia e il terrore atavico della situazione vissuta realmente nel ’72 dai cannibali delle Ande. Fuori dal treno, una natura madre-matrigna che come contrappasso fa accettare ai protagonisti per ben 17 anni una situazione di rigidità sociale assoluta e umiliante perché, come troneggia l’etica dell’ordine costituito e oramai determinato dettata dal personaggio di Tilda Swinton, una scarpa non si mette mica in testa, sarebbe semplicemente ridicolo, una scarpa con il suo piede deve stare al suo posto, allo stesso modo degli abitanti dell’ultimo vagone del treno che già dovrebbero ringraziare per il solo fatto di poter sopravvivere grazie all’ipotetica bontà del padrone del treno.

E in tutto ciò non si poteva fare a meno di omaggiare il maestro della fantascienza  del cinema che è Gilliam, il cui nome è condiviso dal vecchio capo della resistenza interpretato da John Hurt: non si può non pensare alla fuga di Jonathan Pryce in Brazil, in particolare nella seconda parte del film.

Snowpiercer riesce infatti ad unire al distopico anche l’ironia e il grottesco e riesce anche a mantenere un forte e anti-retorico distacco (molto poco occidentale) nei confronti dei personaggi, a cui lo spettatore non può fare a meno invece di affezionarsi viste le difficoltà che vivono, il loro coraggio di ribellarsi nonostante la fragilità e visto anche che sono interpretati da attori così famosi e “simpatici”, con cui è inevitabile entrare in empatia, come ad esempio il già citato John Hurt, ma anche Jamie Bell (Billy Elliot) e Octavia Spencer (The Help).

Forse il meno empatico di tutti è proprio volutamente il protagonista Curtis/Chris Evans, anche lui molto in parte ed adatto per il ruolo di guida della rivoluzione e per i particolarissimi inaspettati e molteplici risvolti che prenderà questa nel film, che si rivela una continua sorpresa capace di stupirci e al tempo stesso sollevare tematiche delicatissime, attuali e ataviche al tempo stesso: il terzo mondo, la guerra tra poveri, l’endemicità o meno delle rivolte nei paesi in via di sviluppo, la sovrappopolazione e il terrore che essa incute ai livelli alti, la questione ambientale, l’homo homini lupus. In Snowpiercer c’è davvero tutto, visto dall’alto del distacco di una cultura, quella della tigre asiatica sudcoreana, che relativamente da poco e in tutta fretta, rispetto a noi europei, è salita definitivamente “su questo treno ad alta velocità di lusso” e che quindi è perfettamente in grado di non fare sconti nel raccontare i meccanismi e le paure che giostrano buona parte del gioco sociale capitalistico occidentale.

Da non perdere. Per nessun motivo.



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