La fuga dal campo della morte continua
Sobibór non rilascia né i suoi prigionieri, né i suoi carnefici
La decorazione non ha trovato l'eroe
Aleksandr Pečerskij, che capeggiò l'unica rivolta di prigionieri dei campi di concentramento nazisti ad avere successo, è morto a Rostov sul Don [1] in un appartamento in coabitazione. Senza aver ricevuto un'onorificenza, neanche una medaglia
“Uomini – a destra. Donne e bambini – a sinistra”. Il 15enne basso e magro Tojvi Blatt, che ancora tiene la mamma per mano, deve decidere in qualche secondo come gli sia più conveniente presentarsi: come uomo o come bambino.
Aprile 1943. Blatt con la sua famiglia e alcune centinaia di ebrei del ghetto della cittadina polacca di Izbica sono portati a Sobibór – uno dei campi di sterminio tedeschi non lontano dalla frontiera polacca con la Bielorussia. Tojvi prende una decisione e va a destra.
“Baciai la mamma. Avevo voglia di dirle qualcosa di importante, sentivo che non ci saremmo più visti. Ma per qualche motivo mi venne fuori: “Ecco, tu ieri non mi hai fatto finire di bere il latte. Volevi lasciarlo per oggi”. E allora lei rispose: “Davvero pensi a QUESTO in un momento del genere?” Non vidi più né lei, né papà, né mio fratello. Presto seppi che li avevano soffocati tutti con il gas e bruciati”.
L'83enne Thomas (Tojvi) Blatt tace per qualche secondo. Nell'aula dell'Università Europea di Cracovia, dove interviene davanti a professori e studenti, c'è silenzio – solo raramente scatta una macchina fotografica o risuona un colpo di tosse sordo di qualcuno. Per la decima, forse per la centesima volta Blatt descrive la scena dell'addio ai familiari, il dialogo con la mamma, che in tutti questi hanno avrebbe dolorosamente voluto cambiare. Ma il racconto di Sobibór è il senso della sua vita. Il tributo della memoria di 250 mila ebrei trasformati in cenere. E ancora – il tributo della memoria della persona, che spesso chiama “il mio eroe”.
– Io sono vivo e oggi intervengo davanti a voi solo grazie a una persona – Saša Aronovič Pečerskij, – dice Blatt. – E' un ufficiale sovietico, capo della nostra rivolta.
La rivolta dei prigionieri del campo della morte di Sobibór è chiamata dagli storici l'unica rivolta ad avere successo in tutta la storia della Seconda Guerra Mondiale. Nel corso di un solo giorno, il 14 ottobre 1943 un gruppo di reclusi uccise la maggior parte dei nazisti e alcune guardie ucraine, cosa che permise a tutti i prigionieri di andare in libertà. Molti furono uccisi durante la fuga, altri poi morirono in battaglia contro i fascisti o per mano dei nazionalisti polacchi. 130 persone rinunciarono a fuggire e furono giustiziate il giorno seguente. Circa cinquanta vissero fino alla fine della guerra, cinque sono ancora vive.
* * *
Il 34enne tenente dell'Armata Rossa Aleksandr Pečerskij insieme ad altri prigionieri di guerra ebrei sovietici giunse in scaglione a Sobibór dal campo di lavoro delle SS a Minsk in via Širokaja nel settembre 1943. Di 2000 persone i nazisti ne scelsero 80 per il lavoro, i restanti furono soffocati con il gas in quel giorno.
Presto l'ufficiale sovietico entrò in conflitto con uno dei principali capi del lager.
“Spaccavamo i ceppi, – questo racconto di Pečerskij è stato registrato da una videocamera dilettantesca nel 1984. – Davanti a me stava un olandese – un giovane con gli occhiali… Questo olandese non dico spaccare, non poteva neanche sollevare una scure ed ecco che Frenzel (l'obersturmführer [2] delle SS Karl Frenzel, terzo nella gerarchia di comando del lager) lo notò. Si avvicina, si pone dietro l'olandese, l'olandese solleva la scure, Frenzel la frusta. Amava picchiare la gente così, per dare un certo ritmo. Io guardai questa scena, Frenzel lo notò e disse: “Сome, come” [3].
… Mi avvicinai, egli scelse un grande ceppo, lo mise in piedi, indicò l'orologio e disse: “Cinque minuti. Se lo spacchi – un pacchetto di sigarette, se non lo spacchi - 25 frustate”. E quando spaccai questo ceppo, mi porse le sigarette con un sorriso, indicò l'orologio e disse: “4,5 minuti”. Gli dico: “Grazie, non fumo”. Egli… va e torna con mezza forma di pane e un pacchetto di margarina. Sapevo da dove aveva preso questo pane. – Qui la voce di Pečerskij comincia a tremare per le lacrime incipienti. – L'aveva preso nel secondo campo (il luogo dove la gente che arrivava a scaglioni lasciava tutte le proprie cose e i propri vestiti, per poi proseguire nel terzo campo – alle camere a gas. – nota dell'autrice) E mi sembrò che gocciolasse sangue dalle sue dita, perché questo pane era stato portato da persone che erano state tutte annientate. E per me fu terribile, quando vidi queste gocce di sangue. Dissi: “Grazie, quello che ricevo qui per me è del tutto sufficiente”. La sua mano tremò”.
Questo episodio, istantaneamente diffusosi per il lager, confermò soltanto il gruppo clandestino nella scelta del leader della rivolta. Inoltre Pečerskij era più vecchio della maggior parte dei prigionieri di guerra sovietici, era un ufficiale e un membro del partito.
Il piano era molto semplice e molto ardito: le SS una dopo l'altra erano invitate a una prova nei laboratori, dove li attendeva una trappola. Le armi del nazista passavano ai rivoltosi, il corpo della persona uccisa veniva nascosti, il sangue veniva coperto di sabbia e si aspettava l'ospite successivo.
“Conoscevo solo Pečerskij. Tutti quelli che parteciparono alla rivolta conoscevano solo lui. Non sapevo chi altro partecipasse”, – ricorda l'89enne Arkadij Vajspapir, che vive a Kiev. Uno dei compagni più prossimi a Pečerskij, Arkadij Moiseevič, ricorda bene quel giorno: allora Saša gli dette il compito di uccidere due fascisti [4] nel laboratorio di sartoria.
“I sarti gli misuravano i vestiti e noi ci avvicinavamo da dietro con le asce, – ricorda Vajspapir. – Certo, una cosa terribile. Dopo uscii – andai da Pečerskij. “Ecco le pistole”. Una la detti a lui, una la tenni per me. Egli dice: “Sai, Arkadij, Frenzel è ancora vivo”. Gli dico: “Guardami. Posso fare ancora qualcosa in questo stato?!» Ero scosso. Era molto pesante… Per quanto odiassi Frenzel, uccidere con una pistola è una cosa, uccidere con un'ascia è tutta un'altra…”
La puntualità tedesca aiutò gli insorti: i fascisti giunsero proprio al momento indicato. Nel corso di un'ora 11 persone furono uccise, tuttavia poi non tutto andò secondo il piano: Frenzel, evidentemente, sospettò qualcosa e non comparve alla prova, non si riuscì a prendere il magazzino con le armi. Pečerskij invitò tutti i prigionieri effettivamente raccoltisi a fuggire.
Nell'aula dell'università di Cracovia si spegne la luce, Blatt da il via a un DVD e mostra uno spezzone del film “Fuga da Sobibór”.
Rutger Hauer nel ruolo di Pečerskij con la pistola in pugno si rivolge alla folla di prigionieri:
“E chi rimarrà vivo racconterà al mondo cos'è successo qui”.
La folla fugge verso il filo spinato sotto il fuoco delle mitragliatrici, lo taglia con coltelli e asce, una ragazza si impiglia con il vestito nel filo e cerca spasmodicamente di liberarsi… La gente si porta nel bosco, molti saltano in aria sulle mine…
– Nel film di principio tutto è mostrato correttamente, ma non completamente, – dice poi Blatt. – Per esempio, la ragazza che cerca di liberare il vestito… ma niente del genere! Là eravamo pronti a strapparci la pelle di dosso pur di liberarci…
Nel bosco i sopravvissuti si divisero in gruppi. Quello capeggiato da Saša andò nei boschi della Bielorussia e si incontrò con i partigiani. Davanti a loro c'era ancora un anno e mezzo di guerra, per Pečerskij parte di questo – com'era spesso con gli ex prigionieri – in un battaglione d'assalto (versione “morbida” del battaglione punitivo).
– Vorresti di nuovo essere a Sobibór? – chiese a Pečerskij lo scrittore Richard Rashke, quando nel corso del lavoro sul libro “Fuga da Sobibór” giunse in Unione Sovietica. Pečerskij, finita la guerra senza una sola onorificenza, gravemente ferito, ma “riscattata la sua colpa davanti alla Patria con il sangue”, per lungo tempo non poté trovare lavoro per il suo “quinto punto” [5] e solo dopo la morte di Stalin si impiegò in una fabbrica metalmeccanica.
– Ci andrei domani, – rispose Saša.
Ma non era destinato ad essere nel luogo del suo gesto eroico fino alla morte nel 1990. Il governo sovietico si rifiutò di lasciar andare Pečerskij sia a Sobibór per le cerimonie in memoria negli anniversari della rivolta, sia ai processi ai nazisti rimasti in vita.
“Per questo processo invitarono mio padre e Pečerskij in Germania, – racconta il figlio di Arkadij Vajspapir Michail. – Ricordi, giunsero giuristi dalla Germania? – Suo padre annuisce. – Questi chiesero ancora a suo padre: “Ma perché non vuole andare in Germania?” Mio padre gli rispose bene: “Non sono certo che potrete garantire la mia sicurezza”. E tutti capirono tutto”.
Blatt a questo processo fu uno dei testimoni principali dell'accusa, proprio allora si incontrò personalmente con il principale imputato – Karl Frenzel.
“Sapevo che si trovava nell'hotel, – ricorda Blatt, – e chiesi a un suo amico tedesco di passare da lui e farsi dare da lui un'informazione necessaria per il mio libro. Presto l'amico mi telefonò e disse: “Vuole parlare personalmente con te”.
Si incontrarono – carnefice e vittima – 40 anni dopo la rivolta. Per la prima volta nella storia un prigioniero di un campo della morte intervistò un comandante.
– Cosa sentì quando conversò con Frenzel?
– Niente. – Blatt sorride leggermente. – Se avessi sentito qualcosa non avrei potuto parlare con lui. Capivo che dovevo comunicare con lui per la storia e mi era indifferente cosa avrebbe detto la gente. Precisamente come a Sobibór, quando persi tutta la mia famiglia, non sentii niente. Qualcosa mi prevenne da ogni sentimento.
Alla fine degli anni Ottanta le frontiere si aprirono, ma Pečerskij era già troppo debole per andarsene. Morì all'età di 80 anni a Rostov sul Don in quell'appartamento in coabitazione dove visse tutti i suoi anni di vita dopo la guerra.
– Ero al suo funerale, – ricorda Arkadij Vajspapir. – Là c'era la sua famiglia, c'era la gente di Rostov. Lo stimavano a Rostov.
– Lo seppellirono con gli onori militari?
La domanda costringe Arkadij Moiseevič a sorridere amaramente.
– No. Certamente no.
Negli ultimi anni della sua vita Pečerskij vide comunque il film “Fuga da Sobibór”, girato sulla base del libro di Richard Rashke.
“Ricordo che ci inviarono questo film e invitammo a casa un traduttore simultaneo. Egli sedeva accanto al nonno e traduceva, – dice Anton. – Al nonno il film piacque molto”.
Negli ultimi 5-6 anni, grazie agli sforzi del centro di studi e ricerche russo “Olocausto”, l'interesse per Pečerskij e la rivolta a Sobibór ha avuto un nuovo impulso.
Negli anni 2008-2010 sono uscite due edizioni del libro “Sobibór. (Rivolta nel campo della morte)” a cura di S. Vilenskij, G. Gorbovickij e L. Teruškin e la prima traduzione in russo del libro di Richard Rashke “Fuga da Sobibór”. Nel 2010 i registi Aleksandr Martujan e Vladimir Dvinskij hanno girato il documentario “Aritmetica della libertà”, che, tra l'altro, non è arrivato ai canali televisivi federali.
“Pečerskij e i suoi compagni sono eroi dimenticati, il cui gesto solo ora è veramente valutato dagli storici, – dice il direttore dell'archivio del centro “Olocausto” Leonid Teruškin. – E' molto difficile costringere a studiare la storia dell'Olocausto e la parte non da parata della storia della guerra. Forse abbiamo già perduto 2-3 generazioni, che già non si interesseranno di questo. Per quelli che oggi hanno dai 15 anni in poi ci sforziamo di liquidare le macchie bianche”.
Thomas Blatt si fa scuro quando si mettono a parlare con lui del destino di Pečerskij dopo la guerra.
– Gli chiesi (durante una visita a Rostov) se avesse una qualche medaglia del governo. Rispose: “Niente”. – “Perché?” Aprì la porta, guardò se non ci fosse nessuno nel corridoio e disse: “Ma perché sono ebreo”.
Blatt è stanco e noi ci accomiatiamo. Il giorno seguente gli tocca una lunga strada attraverso la Polonia fino al confine con la Bielorussia, là dove tra i pini giacciono nella terra le ossa di 250000 persone torturate. Torna in questo posto ogni anno per raccontare di nuovo agli scolari polacchi e ai turisti stranieri la storia della disumana crudeltà dei nazisti, della tragedia degli ebrei torturati senza colpa, del folle coraggio degli insorti. E, certamente, di Saša.
Marija Èjsmont
Cracovia
06.12.2010, “Novaja gazeta”, http://www.novayagazeta.ru/data/2010/137/26.html (traduzione e note di Matteo Mazzoni)
[1] Città della Russia meridionale.
[2] Qualcosa tipo “tenente colonnello”.
[3] Errore di trascrizione. Certamente avrà detto in tedesco “Komm, komm”.
[4] Fuori dall'Italia i termini “nazista” e “fascista” sono utilizzati abbastanza indifferentemente.
[5] Il quinto punto del passaporto sovietico (unico documento di identità) riportava la “nazionalità”, cioè l'appartenenza etnica e Pečerskij risultava “ebreo”...