Praticamente non bevo, ho smesso di fumare sigarette in cambio di qualche buon sigaro cubano - ci ho provato con i toscani, ma non riesco a sopportarne la puzza - non amo bar e cose simili. Credevo di essermi ritagliato un posto tranquillo per la vita della mia famiglia. Nella speranza di non destare le attenzioni del destino, ho volato sottotraccia accettando con soddisfazione il poco o il tanto che riuscivo a ottenere. Sperando che il mondo non si accorgesse di noi, che ci facesse vivere tranquillamente.
Sono ateo, perciò non posso accusare nessun dio di avermi abbandonato o di non avermi aiutato nel momento del bisogno, non voglio nemmeno pensare alla sfiga, il destino, il karma o qualunque altra superstizione atavica. Inutile accusare me stesso, anche se la tentazione è molto forte, ma so che è illogico. E allora con chi dovrei prendermela? Chi devo accusare? Il mafioso pelato che non ha esitato a rovinare una famiglia senza il coraggio di ammetterlo davanti alla sua anima lurida e presuntuosa? Forse, ma non è abbastanza, non mi soddisfa, non può essere così semplice.
Penso alla fiat, che preferisce produrre le sue automobili in serbia, paese in cui i lavoratori non hanno alcun diritto e guadagnano 400 euro al mese, piuttosto che mantenere famiglie italiane che, con le tasse hanno pagato la cassa integrazione e le perdite dell'azienda e che, dei guadagni, non hanno mai visto un centesimo. È “socialmente responsabile” - locuzione odiosa che va tanto di moda fra le grandi multinazionali con la coscienza sporca - che un’azienda a conduzione familiare diventata ciò che è grazie ai soldi del piano Marshall, i finanziamenti statali, gli sgravi fiscali, l’ammortamento delle perdite chiamato cassa integrazione, decida di spostare, nel nome di una non ben precisata globalizzazione, la sua produzione in paesi in cui non esistono diritti dei lavoratori e la manodopera costa niente? Insomma, dopo aver fatto pagare sempre e comunque le perdite ai lavoratori e agli italiani, ora, nel nome dell’economia selvaggia, si permette di dare un calcio in culo a decine di migliaia di lavoratori, mogli, figli, genitori e anche cittadini. Non ho letto su alcun giornale una proposta una, per risolvere questa lenta schiavizzazione di migliaia di italiani. Solo pompose analisi che lasciano il tempo che trovano, ma nessuna soluzione.
Già immagino cosa proveranno tutti questi operai e le loro famiglie, perché è proprio quello che sto passando anch’io. Si incazzeranno, altro che, se si incazzeranno. Prenderanno un po’ di manganellate dalla polizia, un sussidio di disoccupazione per qualche mese, con l’angoscia di cosa fare una volta terminati i soldi e, come me, si meraviglieranno di come il mondo continui la sua vita, indifferente verso la loro disperazione.
La prima volta che provai una sensazione simile fu alla morte di mio padre: non riuscivo a capacitarmi di come mai la vita fuori dalla porta di casa potesse proseguire indisturbata malgrado un dolore così profondo. Mi stupivo addirittura che anche le case, le auto, gli alberi, non dessero alcun segno di tristezza. Poi ho capito che il mondo esiste perché io esisto. Quando non esisterò più, per quanto mi riguarda, non esisterà più nemmeno il mondo.
Non è che il mondo fosse indifferente alla morte di mio padre, era semplicemente che il mondo, per mio padre, non esisteva più e viceversa.
Eppure continua a farmi rabbia questa indifferenza che mi circonda, rispetto a quando il telefono squillava ogni dieci minuti e un sacco di gente si preoccupava di me, pensava a me, aveva bisogno di me. Proprio come la mia famiglia, che continua ad avere bisogno, ma sono io questa volta, a non poter soddisfare le sue necessità. Per aiutarla non esiterei a corrompere, a farmi corrompere, farmi raccomandare, a fare tutto ciò che sarebbe moralmente inaccettabile, perché ciò che conta, al di là di tante belle parole, è il benessere dei propri cari, perpetuare i propri geni, contro tutto e tutti. Questa volta non mi farei gli scrupoli morali che mi rodevano il cervello a causa di ciò che andava contro i miei principi. Il lavoro è lavoro. Punto e basta. E un uomo a cui viene tolta la dignità e la possibilità di crescere i propri figli, è un uomo cui è stata inflitta la più tremenda delle ingiustizie.
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