Il sociologo contemporaneo
Zygmunt Bauman ha messo a fuoco, nei suoi saggi, alcune caratteristiche del mondo-in-cui-viviamo.In “Consumo dunque sono” (2008) descrive il passaggio da una società dei produttori – quale è stata quella del capitalismo nella sua fase nascente – a una società dei consumatori, quella che è diventata – a grandi linee – nel novecento, con la sclerotizzazione del capitalismo e insieme la sua “liquefazione” in un turbine di finanza e denaro virtuale, dove però tutto tende all’accentramento aziendale, alla mega-struttura di dimensione ciclopica, e quindi alla riduzione delle possibilità di quella “libera iniziativa economica del singolo” che, secondo i teorici del primo capitalismo del ’700 e ’800, era la chiave dell’economia di mercato.
In pratica, vista la ciclopicità degli operatori economici, al cittadino non resta altro che il ruolo di consumatore. La sua attività “sociale”, di supporto e alimentazione per la società, è il consumo, non più la produzione (o comunque un ruolo nella catena di produzione).
Il cittadino utile per la società è semplicemente il cittadino che consuma.
Prima i valori erano il risparmio, l’oculatezza, l’impegno ossessivo e costante, il costruire-per-il-futuro. L’ideale del self made man, e del capitalista di spirito protestante (con tutto il sottotesto di ossessione e patologia collettiva, come indicato da Weber), sono propri di una società dei produttori.
Adesso il self made man è fuori moda, non ha senso costruire, risparmiare, pensare al futuro. Bisogna consumare, e il consumo è sempre qui-e-ora. L’ideale di oggi – la sovrastruttura culturale ed esistenziale che, marxianamente, è determinata dalla struttura economia – è un uomo che coglie tutte le opportunità che il presente - l’attimo fuggente – offre. E basta.
Non importa il futuro. Per il futuro si penserà nel futuro. Se prima c’era il libretto di risparmio – soldi materiali che metti da parte – ora c’è la carta di credito. Con cui puoi andare a fare shopping anche se materialmente non hai i soldi necessari. (Flash: Gli Stati Uniti che vivono al di sopra dei loro mezzi, che nel 2005 spendono il 57% in più di quanto abbiano guadagnato sui mercati mondiali, indebitandosi con Cina, Giappone e Mediorente).
Perchè l’economia gira se si consuma, e – andiamo agli effetti psicologici di tutto ciò – il consumatore deve sentirsi uguale a tutti gli altri e soprattutto libero. Egli, paradossalmente, è “costretto” a sentirsi libero (libero-per-decreto, dice Bauman).
Dov’è la fregatura? Ecco. Il consumatore deve sentirsi libero, si, ma fino ad un certo punto. Gli viene difficile – ed è un bene per la società, che gli venga difficile – pensare a modi alternativi di vita individuale e collettiva.
Il nostro è un sistema-senza-opposizione, diceva Marcuse una generazione prima di Bauman.
Lo sguardo del consumatore, il suo libero dispiegarsi, è soffocato dalla mole dell’offerta esistente. Tutto troppo grande, ci sono troppe cose, e si va in overload, overdose, sovraccarico. Il troppo produce confusione, e non allarga gli orizzonti, ma li stritola.
La libertà del consumatore – la liberta concessa, esercitabile “liberamente” – è di tipo particolare, è la libertà di scegliere tra le innumerevoli offerte sul mercato. Offerta di prodotti di consumo: identità, stili di vita, sistemi di pensiero, relazioni affettive. Tutto è prodotto di consumo, merce da scegliere come in un ciclopico supermercato. Ma il supermercato è sempre uno, unico, totalitario, anche se di dimensioni enormi.
Il consumatore è spinto ad uno stile di vita edonistico e senza responsabilità. Deve consumare il prodotto, desiderare un altro prodotto, consumarlo, e così via, all’infinito. Non deve esistere niente di stabile e sicuro. Altrimenti l’economia non gira. E per far girare l’economia bisogna semplicemente: consumare, consumare, consumare.(Flash 1: l’Obsolescenza Controllata dei Prodotti. Prima un cappotto durava una vita, qualità alta del tessuto, adesso devi cambiarlo ogni anno. Tessuti, materiali, produzione, tutto fatto apposta per durare poco. Flash 2: La vecchia Fiat 500 ritirata dal mercato perchè troppo resistente e duratura. Avrebbe ammazzato il mercato).
Inoltre.
Uguaglianza e libertà giuridicamente formalizzati – messo insieme alla nuova società-dei-consumatori – hanno innescato la corsa alla felicità, hanno logorato i nostri tendini che sempre tendono verso l’alto, braccia protese in avanti, verso il Sol dell’Avvenire, le Magnifiche Sorti e Progressive, ora declinate in chiave ultra-individualistica, pappetta pubblicitaria, target da agenzia di marketing: il Consumo che rende Felice.
Se, con l’avvento della libertà e l’uguaglianza, la cifra psicologica del cittadino occidentale è stata – nella società dei produttori – il senso di colpa (responsabilità individuale, attività frenetica), adesso la nostra è la società dell’ansia.
Ansia di consumare Ansia di Avere Ansia di Esperire Ansia di Essere Migliori Ansia di Arrivare ad Essere nel Miglior Modo Possibile, in un contesto dove tutto sembra a portata di mano, tutto sembra raggiungibile – perchè siamo tutti uguali e tutti ugualmente liberi – e c’è solo da scegliere tra le innumerevoli Offerte del Supermercato.
Ansia. Vogliamo vivere mille vite contemporaneamente, fare mille cose, avere mille cose, essere mille cose. Vogliamo possedere ed esperire tutto quello che c’è nel Supermercato. Tutto è visibile, offerto, apparentemente a portata di mano. E nell’ansia di arrivare a tutte queste mille cose impossibili da arrivarci tutte insieme – perchè purtroppo, come essere finiti, abbiamo ancora notevoli problemi di contingenza spazio-temporale – ci fottiamo il cervello, la vita, l’esistenza.
Siamo sempre scontenti. Vogliamo sempre Qualcos’Altro. La nostra scontentezza – i nostri capricci nevrotici e bulimici – sono il lievito dell’economia, sono fondamentali, strutturali. E le nostre scontentezze individuali, messe tutte assieme, sono il pilastro dell’economia di mercato declinata in consumismo. Perchè giustamente la nostra scontentezza diventa presto desiderio. E il consumo dipende dal desiderio.
Infelici che tendiamo alla felicità, così siamo ingranaggio perfetto della macchina, oliamo i cardini, perchè la macchina vada alla grande.
Ma noi? Andiamo alla grande, noi?
Oppure tutto questo meccanismo non fa altro che produrre ferite, ferite interiori?
Ci sentiamo tutti fortissimi e debolissimi, spesso contemporaneamente.E, quando sentiamo queste ferite, ci sentiamo vittime.Inebriate di dolore e torti subiti.
Il problema però è che il dolore si sconta col dolore, inflitto o autoinflitto. Un circolo vizioso che condiziona tutto, a partire dal rapporto con gli altri, che diventa sempre più all’insegna dell’ invidia, rancore, livore.
Parole chiave di per-ora.
NOTE1) Illustrazioni: Corrado Roi (su Dylan Dog)2) Un brano di Zygmunt Bauman, Amore liquido, 2003: "Quasi mai la vittimizzazione rende umane le sue vittime.Essere una vittima non garantisce l’attribuzione di una superiorità morale. In una lettera privata in cui obiettava alle mie considerazioni sulla possibilità di spezzare la “catena scismogenetica” che tende a trasformare le vittime in vittimizzatori, Antonino Zelazkova, l’intrepida e penetrante etnologa nonchè fervida esploratrice dell’apparentemente infinita polveriera di animosità etniche e di altro tipo che lacera i Balcani, scrisse: “Non accetto l’idea che chi è stato in passato vittima debba combattere la tentazione di trasformarsi in killer. Lei chiede troppo alla gente comune. è normale per la vittima trasformarsi in macellaio.Il pover’uomo, così come il povero di spirito che tu hai aiutato, finisce con l’odiarti (…) perchè vuole dimenticare il passato, l’umiliazione, il dolore e il fatto di aver raggiunto qualcosa grazie all’aiuto di qualcuno, a seguito della pietà di qualcuno, e non da solo (…)Come sfuggire al dolore e all’umiliazione? La cosa più naturale è uccidere o umiliare il tuo giustiziere o benefattore, oppure trovare qualcun altro ancora più debole per poter trionfare su di lui“.
3) Un brano da Zygmunt Bauman, L’arte della vita, 2009: "Già Max Scheler, nel 1912, aveva notato che la persona comune, anzichè fare esperienza dei valori prima di raffrontarli, apprezza un determinato valore solo “al momento (…) e in forza (…) della comparazione” con gli averi, la situazione e la condizione o la qualità altrui. Il guaio è che quasi sempre uno degli effetti collaterali di un simile raffronto è la scoperta di non possedere un qualche valore oggetto di apprezzamento. Tale scoperta e, ancor più, la consapevolezza che l’acquisizione e il godimento di quel valore vanno al di là della capacità della persona suscitano sentimenti fortissimi e innescano due reazioni opposte ma altrettanto vigorose: il desiderio irresistibile (reso ancora più straziante dal sospetto che sia impossibile da soddisfare) e il ressentiment (il rancore provocato da uno stimolo disperato a esorcizzare la svalutazione, deridendo e declassando il valore in questione e coloro che lo possiedono). Possiamo notare che l’esperienza dell’umiliazione, in quanto risultato di due spinte tra loro contraddittorie, produrrà un atteggiamento fortemente ambiguo, una dissonanza cognitiva esemplare, focolaio di comportamenti irrazionali e fortezza impenetrabile agli argomenti razionali. Sarà inoltre fonte di ansia perenne e di disagio spirituale per chiunque ne sia afflitto. Ma, come aveva previsto Max Scheler, tra i nostri contemporanei il numero di coloro che sono afflitti da questa malattia molto elevato (…) Secondo Scheler tale vulnerabilità è inevitabile (e probabilmente incurabile) in un tipo di società in cui una relativa uguaglianza di diritti (politici e non) e una uguaglianza sociale formalmente riconosciuta vanno di pari passo con un’enorme differenziazione del potere effettivo, degli averi e dell’istruzione: una società in cui ognuno “ha il diritto” di considerarsi uguale a chiunque altro, ma di fatto non è in grado di esserlo".