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Sofferenza, individualità e sforzo creativo

Creato il 27 giugno 2011 da Peppiniello @peppiniello

Il tema di cui parlerò è il conflitto tra individuo e società (nello specifico, la difficoltà di conquistare una proprio identità autonoma); tema abusato, certamente, ma vorrei precisare da dove ha origine, cosa implica, ed alcuni rischi correlati

Il fenomeno non è così recente come si potrebbe pensare, ma manco antichissimo; diciamo che prende l’avvio con la cosiddetta era democratica, dalle 2 rivoluzioni in poi; prima della riv. francese, l’identità di una persona coincideva per larga parte con la posizione sociale (e gerarchica) che egli occupava; se nascevi contadino, da padre contadino, nella valle tal dei talis, al 99% saresti rimasto contadino, e avresti continuato a vivere li; non c’era quindi, come oggi, quel tipo di ansia bestiale che hanno le persone, che devono lottare per la conquista di un identità; oggi le identità sono liquide, mobili; c’è virtualmente la possibilità di fare qualsiasi cosa, di diventare qualsiasi cosa (il dramma del mito democratico: voler far pensare alla gente che tutti ce la possono fare, che tutti possono fare una vita di successo)

cmq sia: il fatto di poter essere qualsiasi cosa, implica anche la difficoltà estrema nell’esser compiutamente qualcosa, nel fermarsi su una sola identità; puoi esser tutto e tutti, alla fine non sei nessuno. La conseguenza è lo smarrimento di sè, il non sapere chi si è, non sapere che minchia di pesci prendere

Ed allora: le persone, oggi sempre più spesso, lamentano questa incertezza, lamentano l’esser in crisi, il non sapere chi siano; tale crisi porta ad un fatto: se non sai chi sei, la cosa più semplice è esser come tutti gli altri; piazzarsi quindi addosso i segni dell’identità collettiva; se non sai chi sei, è facile (anzi è comodo, e da un senso di sicurezza e di appagamento) ll provare a fare come tutti, entrando in una modalità “collettiva”(tipico delle personalità regressive)

Non farà una cosa perchè la vuole fare, ma la farà perchè ”si fa”.

Fare come tutti è facile: non subiremo più critiche, non ci sentiremo sempre sotto pressione, non dovremo più lottare e sforzarci per affermare contenuti non banali; insomma, è una pacchia. Certo, persone così sono morte dentro, sono talmente schifose che io non ci parlerei nemmeno, ma tant’è.

Opporsi alla massa, andare controcorrente per afferma la propria individualità come unica, implica grosse difficoltà, sofferenze e incomprensioni. E questo perché chi non si uniforma, chi la vive in maniera diversa, è visto come un pericolo.

Il rischio che si corre, quando si vuole affermare la proprio identità, è di identificarsi con “la diversità”; il diventare contro, il non fare quel che si fa di solito, ma porsi in una posizione sempre di conflitto; persone così sembrano combattere per le proprio idee, in realtà combattono per testimoniare e affermare la propria diversità.

Egli non esiste: si contrappone; ed è una esistenza inautentica, fasulla, alla pari di quella schicciata sulla massa, sulla collettività.

Il problema allora è arrivare ad una identità, che sia nostra, che non sia massificata, e che non sia manco fondata completamente sulla negazione; il che implica uno sforzo creativo notevolissimo.
Lottare per la conquista di tale identità è difficile, lo ripeto; comodo è seguire vie già battute, non mettersi in pericolo, non rischiare nulla di sé, provando a tirar fuori quel che realmente siamo. Uscire dalla mediocrità, diventare grandi, significa esporsi, mettersi in prima linea e combattere. La realtà esterna è organizzata in maniera tale da incoraggiare la scelta della mediocrità, che sarebbe più funzionale alla sua sopravvivenza ed al quieto vivere. Nessuno ci rimprevererà mai se decidiamo di essere persone modeste, di accontentarci degli avanzi della vita. Nessuno ci rimprovererà mai se diremo e penseremo quel che tutti dicono e pensano; anzi…

La conquista di tale identità si consegue solo attraverso la sofferenza; non c’è scampo; perché ci sentiremo abbandonati, incompresi, soli, stanchi; è il destino di tutti i creatori.

in un percorso come questo non è ipotizzabile non vivere momenti di sconforto, financo di depressione :lo stesso Gesù, quando si sente abbandonato, ha un momento di sconforto, e grida verso il padre” Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?”

ma il nostro (nostro per chi si sente chiamato a questo) compito è trasformare questa sofferenza,  da novelli alchimisti del nuovo millennio, riuscire alla fine di tutto a leggerla, anzi di più a viverla come positiva, financo ad amarla (fa molto amor fati, è vero)

“le grandi epoche della storia si verificano quando l’uomo ha il coraggio di ridefinire il proprio male, considerandolo come quel che di meglio possiede” (nietzsche, dai frammenti 1886)

Se vogliamo “provocare in noi stessi quello scatto propulsivo che permetta di afferrare le redini dell’esistenza, dobbiamo riuscire a vedere come fecondo quello che abbiamo considerato come più sbagliato, più brutto, più inadatto, e riconoscere l’inaffidabilità di quel che per noi era pià prezioso” (a. carotenuto, da Eros e pathos)

Ma ripeto, questo è lavoro per pochi eletti; i più si acconteranno di  vivacchiare, si accontentano pur di non rischiare nulla (cazzi loro); ma se si tenta si può fallire, se non si tenta è sicuro che non falliremo mai, certo, ma anche che non vinceremo nulla



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