Sogni di Bunker Hill, Einaudi, 2004 (Dreams from Bunker Hill, 1982)
Dal Colorado a Los Angeles, sognando una California a tinte verde dollaro, il giovane italoamericano Arturo Bandini insegue la chimera del successo letterario in seguito al grande salto che da cameriere presso un fastfood di Los Angeles lo porta alle dipendenze del magnate della stampa Heinrich Muller. All’alba del suo ingresso nel giro di coloro che contano, Bandini intraprende dapprima il ruolo scomodo del correttore di bozze per poi entrare nell’aureo olimpo degli sceneggiatori di Hollywood, affiancato ad una stanca e alquanto narcisistica stella cadente del panorama cinematografico locale la cui vita sembra ormai inevitabilmente lanciata sul viale del tramonto di coloro che furono. Avvilito dall’aspettativa tradita di un lavoro dalle sfolgoranti premesse, il giovane scrittore confida almeno nell’amore della proprietaria dell’hotel sito a Bunker Hill presso cui di solito dimora. Ma i sentimenti, come l’arte, sembrano plastificarsi al cospetto di una realtà consunta che vede muoversi i suoi frequentatori perennemente in bilico tra esaltazioni egocentriche di rarefatte personalità e scivoloni drammaticamente accentuati nella disperazione dell’oblio.
L’ultimo romanzo di John Fante, italoamericano del Colorado come l’alter ego di molti suoi romanzi, è un’acuta e alquanto spietata analisi del patinato mondo della Mecca del cinema americano. Il suo personaggio è un antieroe che si muove confuso per le vie di una Los Angeles estraniante che niente sembra concedere all’uomo che per un attimo abbia la ventura di imbattersi nelle retrovie della propria fragilità. Bandini, sognatore di provincia, è anche un tenero vigliacco che in più occasioni tenta di uscire dal lercio pantano in cui si trova improvvisamente invischiato, ma senza mai riuscirci del tutto, perché preda egli stesso del brillante personaggio costruitosi a furia di precipitose scalate alla propria torre d’avorio. Ma Fante, in questo suo testamento artistico, non vuole uscire di scena facendoci ingurgitare ettolitri di stilistica amarezza di stampo new bohemien e decide di concedere al lettore un’ultima speranza di salvezza. Lo fa sottovoce, attraverso il candore infantile di una filastrocca per bambini cui il nostro protagonista si affida per poter riaffacciarsi alle porte dischiuse del sogno americano. Cinico, irriverente e spietatamente sarcastico.
Voto 8/10
Giuseppe Joe Castronuovo