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Sole a catinelle

Creato il 04 novembre 2013 da Af68 @AntonioFalcone1

1Parziale delusione per Sole a catinelle, il ritorno di Checco Zalone sul grande schermo due anni dopo Che bella giornata, a sua volta seguente al debutto del 2009 con Cado dalle nubi. Sempre diretto da Gennaro Nunziante, anche autore della sceneggiatura insieme allo stesso Zalone, il film scricchiola e segna il passo più volte nel corso della narrazione, per due fattori, coordinati fra di loro: aver alzato leggermente l’asticella dei toni, vagamente più ambiziosi, e l’incapacità di reggere quest’ultimi con un adeguato supporto attoriale, di scrittura e registico. Nei citati precedenti lavori della premiata ditta, apprezzati da chi scrive (con qualche riserva), veniva infatti allestita una messa in scena piuttosto semplice, strutturata su di uno script lineare, anche troppo, senza particolari slanci, anzi forse mitigato da un’eccessiva “pulizia” riguardo l’irriverenza originaria del personaggio, quella propria dei suoi testi musicali.
La capacità di far (sor)ridere si delineava grazie ad una comicità di situazione, elementare, giocata spesso su studiate storpiature o errori grammaticali, mai fini a sé stessi, con i suoi bravi antecedenti nell’avanspettacolo.

Miriam Dalmazio, Robert Dancs, Checco Zalone

Miriam Dalmazio, Robert Dancs, Checco Zalone

Battute grevi, idonee però ad andare dritte al bersaglio, senza mediazioni di alcun genere, per una satira più di superficie che realmente graffiante, ma efficace nel mettere in evidenza il nostro malcostume e gli atavici vizi, sbeffeggiati ed inneggiati a stile di vita.
Inoltre il comico pugliese, a mio avviso, riusciva a sfruttare l’insita potenzialità di divenire una nuova maschera del nostro cinema, in rappresentanza, triste specchio dei tempi, non più dell’uomo medio, di sordiana memoria, ma mediocre, conscio della sua ignoranza, il quale affronta la vita con disinvoltura ed estremo candore, facendo sì che siano le varie situazioni ad adattarsi al suo modus operandi. Queste caratteristiche si rinvengono anche in Sole a catinelle, ma addomesticate nella loro estemporaneità per essere inserite in una dimensione cinematografica più definita e compiuta.
Tentativo lodevole, che avrebbe però meritato una maggiore incisività dei personaggi secondari ed una loro effettiva interazione col protagonista (penso al ruolo di Ivano Marescotti nei due precedenti film), la cui comicità si ritrova presto col fiato corto ed evidenzia una sovrastimata capacità di mattatore.
Zalone e Dancs

Zalone e Dancs

Checco, meridionale trapiantato a Vicenza, dapprima uomo delle pulizie in un lussuoso albergo e poi “imprenditore di se stesso” come venditore d’aspirapolvere, motivato da un baldanzoso ottimismo, è subito baciato dal successo grazie ad una numerosa parentela da sfruttare nella qualità di sicuri acquirenti. Colpito da improvviso benessere, nonostante la moglie Daniela (Miriam Dalmazio), operaia in una fabbrica, lo inviti a tenere in piedi per terra, il nostro inizia a circondarsi di tutto ciò che la civiltà dei consumi può concedergli, superfluo incluso, grazie anche a rateizzazioni e finanziamenti.
Ma la lista dei parenti è destinata ad assottigliarsi e così l’allegro venditore si ritroverà sul lastrico, mentre Daniela, insieme alla sue colleghe, sta per perdere il posto, causa chiusura dello stabilimento. Checco non si dispera, ora deve pensare come onorare la promessa rivolta al figlio Nicolò (Robert Dancs), una vacanza da sogno se avesse preso “tutti dieci in pagella”: considerato che il pargolo ce l’ha fatta, occorre mettersi in viaggio, verso il Molise però, alla ricerca degli ultimi parenti rimasti. Tutto cambierà una volta che i due incontreranno Zoe (Aurore Erguy), ricca industriale, e il suo figliolo Lorenzo (Ruben Aprea)…
Aurore Erguy, Ruben Aprea, Dancs e Zalone

Aurore Erguy, Ruben Aprea, Dancs e Zalone

La prima parte di Sole a catinelle, dall’inizio sino al viaggio in Molise funziona piuttosto bene, la storia scorre, le varie gag funzionano, ed è evidente, per quanto espressa a grana grossa, la satira sulla palese impotenza a gestire l’onnipotenza del sogno berlusconiano, forte di un calcolato panem et circenses rivolto all’ obnubilamento delle masse, da parte di quanti, sorriso ad oltranza, ottimismo d’accatto e spirito emulativo, hanno cavalcato per anni l’idea un finto benessere, tutto a portata di tutti, dove anche la speranza trovava opportuna rateizzazione. Funzionale al narrato la visualizzazione del rapporto padre-figlio (peccato invece che la figura della madre sia stata messa un po’ da parte) ed esilaranti le sequenze che vedono entrambi alle prese con la tendenza al risparmio di zia Ritella (Matilde Caterina).

Il ritmo cambia dall’incontro con Zoe e Lorenzo, bambino afflitto da mutismo selettivo “guarito” dall’intervento di Checco, e relativo ingresso nel mondo della borghesia bene, mode e tendenze a sinistra, ma capitali in viaggio verso le Isole Cayman grazie alla fantasia finanziaria di amministratori delegati senza scrupoli, in barba alle fabbriche che chiudono e agli operai senza lavoro: tutto assume un tono straniante, fra qualche gag indovinata (le magliette di Che Guevara) e altre un po’ meno (il picnic vegano ad esempio, o la solita tirata verso i film “impegnati”, la partita a golf), l’one man show inizia a perdere colpi, nella mancanza di una valida contrapposizione (di battute, dialoghi, situazioni) espressa dagli altri interpreti (Marco Paolini in particolare), come scritto ad inizio articolo, i quali divengono nient’altro che uno statico tiro a segno per le trovate espresse dalla sceneggiatura (l’ingresso nella loggia massonica).
Inoltre, per colmare alcuni evidenti momenti di stasi, anche registica, è stato previsto l’inserimento di tutta una serie di canzoni, le quali danno a vita ad alcune scene a metà strada tra l’italico musicarello d’antan e lo Zecchino d’Oro: per quanto divertenti, alla lunga creano un effetto saturazione.

Zalone e Gennaro Nunziante

Zalone e Gennaro Nunziante

Un finale sbrigativo, un po’ alla volemose bene, un po’espressione dell’arte d’arrangiarsi (d’altronde titolo di un film del ’54, diretto da Luigi Zampa, con Alberto Sordi protagonista, che, credo, abbia ispirato gli autori), con uno strascico evitabile nel suo cattivo gusto, pur nell’indovinata battuta sdrammatizzante, caratterizza definitivamente il film come un colorato (e colorito) patchwork, una coperta composta da più parti ma alla fine troppo corta nel suddetto tentativo di provare a conciliare comicità ruspante con spunti e toni più ponderati, destinato a restare, cinematograficamente parlando, fra “color che stan sospesi”. Certo, ci si diverte nel complesso, ma, almeno a livello di personale sensazione, rimane l’amaro in bocca per aver solo in parte centrato il bersaglio relativo a un nuovo modo, forse definitivo, di delineare la commedia italiana: riuscire a cogliere, in definitiva, la tendenza espressa dal grande pubblico di gradire un intrattenimento leggero, valido comunque ad illustrare elementi riconoscibili della nostra realtà, pur se volti al grottesco e in stile “buffetto sulla guancia”. Si è fatto affidamento, ancora una volta, sulla facile tesaurizzazione dei passati lavori, in nome di preventivati incassi alle stelle, come è puntualmente accaduto nel primo weekend di programmazione, ma non sempre potrà essere sufficiente uno Zalone a far primavera.

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