Dopo aver cercato di convincere amici e sorelle di venire con me, ho preso, da sola, il Frecciarossa Milano-Roma ieri mattina alle dieci e un quarto, e poi un trenino locale fino a Orte, dove un volontario del Festival Caffeina mi aspettava per portarmi in albergo qui, a Viterbo appunto, che tra l’altro, per chi non lo sapesse, non è in Toscana (come pensavo io), ma in Lazio. Sono qui a presentare il mio libro.Il signor Renato, proprietario del Bed&Breakfast mi ha accolto con genuina ospitalità e mi ha insegnato come aprire portone, portoncino e camera con una semplice tesserina con sopra il numero tre scritto da lui con un pennarello indelebile blu. “La colazione è servita dalle 8 alle 10. Benvenuta a Viterbo, signora Viola!”Stanca e accaldata mi sono coricata sul letto matrimoniale della stanza. Gli occhi spalancati fissavano le travi antiche del soffitto. Per un attimo mi sono sentita un po’ sola: sapevo che non avrei più parlato con nessuno fino alla mattina dopo, quando il signor Renato mi avrebbe dato il buongiorno nella saletta delle colazioni. Prima volta in vita mia che sono da sola in un posto che non conosco, dove non conosco nessuno.Poi sono uscita, a fare un giro per la cittadina antica, straordinaria per i suoi palazzi antichi, le piccole piazze, i fiori sui balconi, i negozietti. Ho girato per un paio d’ore e poi sono andata ad ascoltare la presentazione di un libro che ho capito non leggerò mai, che sembra un po’ una cagata. Verso le otto mi sono infilata in un’osteria, quella del fratello di Renato che tanto mi ha raccomandato di provare. Anche quella bellissima, soprattutto per una che come me, vive in America da vent’anni, dove le cose 'antiche’ sono state costruite nell’anno in cui nacque mia nonna, e cioé nel 1912. È una specie di cantina, con arcate in pietra, tavolini di legno scuro, un menù semplice e saporito, un quarto di rosso e mezzo d’acqua ‘leggermente’, come dice l’oste, un cesto di pane con due confezioni di grissini. Il tavolo, apparecchiato per due, è stato sparecchiato per metà con gesti veloci e automatici. In fondo alla saletta quattro amici (due coppie) parlavano a voce alta di come una di loro avesse per ben due volte salvato la vita al figlio. Anch’io ho salvato la vita a mio figlio, che stava annegando in una piscina caraibica. Ma non ho voglia di pensarci adesso, signora cara, per cui cerchi di cambiare discorso. Cosa che per magia fa, appena arriva il mio piatto di pasta con i funghi porcini, per commentare l’aroma forte che ad un tratto riempiel’ambiente. Si avvicina al mio tavolo per vedere cosa ho ordinato. “Sono congelati, lo sa? Non è mica stagione di funghi...” Un sano “Si faccia i cazzi suoi” è stato deglutito con un sorso fin troppo grosso del rosso della casa, ottimo.Poi, seguendo una cartina molto approssimativa, mi sono incamminata verso piazza san Lorenzo, dove Erri De Luca presentava il suo ultimo libro, La Parola Contraria: sarei andata ad ascoltarlo anche se avesse presentato l’elenco telefonico. Le strade intanto si erano riempite e tra la folla mi sento chiamare: “Marina! Eccoti!” Mi giro e trovo Daria Colombo, che oltre ad essere la moglie di Vecchioni, è autrice e con cui avevo fatto un viaggio Milano-Varese la settimana scorsa a un piccolo festival letterario. Lei presentava il suo libro e io il mio, e chiacchierando avevamo scoperto che saremmo tutte e due state a Viterbo. Mi ha abbracciato come se ci conoscessimo da anni, sinceramente felice di vedermi. Forse era anche lei un po’ disorientata, e dalla sua borsa ha tirato fuori una copia del suo libro. “L’ho portata da Milano apposta per te. Sono felice di vederti!” L’ho accompagnata nella piazza dove avrebbe fatto la sua presentazione, e dove domani sera farò la mia, ma siccome l’avevo già ascoltata a Varese, le ho detto che sarei andata da De Luca. “Ma poi torna, va bene?” mi ha detto riabbraccindomi. Mi ha velocemente presentato alla sua amica: “Questa è Marina, quella di cui ti parlavo...”.Sono corsa da De Luca e ho cercato un posto in prima fila, per far finta che dietro di me non ci fosse nessuno e che parlasse solo a me. Trovata una sedia libera (alle presentazioni, come nelle aule scolastiche, nessuno vuole sedersi in prima fila), mi sono tuffata nel suo oceano di parole, pesate giuste, pronunciate giuste, pensate giuste. E proprio su una parola e sul suo significato era impostata la serata: sabotare, parola per cui è ormai due anni che passa dentro e fuori dal tribunale. Ha raccontato la sua vicenda come solo lui può, e poi, troppo in fretta, è finita. Si sono alzati tutti e io sono rimasta lì, a dare il tempo alla mia pelle e al mio cervello di assorbire le sue ultime parole, e al mio cuore di ammettere di amarlo.Poi sono tornata da Daria, che aveva appena finito. Andava a mangiare per cui l’ho salutata. “Sei bella, Marina. A presto”, mi ha detto. Ho optato per un bicchierino in un bar del centro, da sola, e poi in albergo, a leggere degli scritti che mi ha mandato il mio amico Giorgio. La giornata, seppure bella e piena, è stata scandita dalla voglia di qualcosa che non ho saputo decifrare, quasi vaga ma evidentemente precisa, e stamattina mi sono svegliata con quella stessa voglia di qualcosa. Pensavo fosse di caffè, ma invece no; di croissant, ma invece no; d’acqua, ma no; di scrivere, di una passeggiata lunga, ma no; di un dolce, un frutto, un sonnellino. Niente. Poi ho capito. Ho d’un tratto una voglia fisica di due coccole, di un abbraccio, di un po’ d’affetto. Di farmi una risata, di un bacio. Ne ho una voglia pazzesca anche se oggettivamente rimarrà incolmabile, sia qui a Viterbo, che poi in Molise, tra qualche giorno. La solitudine, ho capito, non fa per me. E forse è invece proprio quello che più mi serve.