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Lo aspettavano al varco Nicolas Winding Refn.
Era bastata l’ora e mezza abbondante di “Drive” due anni fa per consacrare un regista fino a poco tempo prima sconosciuto e un attore, Ryan Gosling, fino a poco tempo prima sottovalutato nell'olimpo dei grandi e dei più stimati, un olimpo che però con la stessa velocità usata per promuovere rischia ora di riportare ogni cosa un passo indietro, a come si trovava esattamente prima che quella inaspettata e splendida proiezione avesse luogo.
La confusione risiede tutta nell'errata concezione che Refn sia solo ed esclusivamente l’artefice di "Drive", quando invece, al contrario, chi lo conosce a fondo sa benissimo che non è mai stato solo quello e mai lo sarà. Prima dell’acclamato successo c'era stato infatti il fantastico e trascurato "Bronson" e ancora prima il soffertissimo, rarefatto "Valhalla Rising", piuttosto che la illustre trilogia di "Pusher" che ha contribuito a promuovere il suo nome oltre la Danimarca, terra natia. Chi allora si avvicinerà a "Solo Dio Perdona" nel ricordo di "Drive" non potrà che restare deluso da questa sporca storia di vendetta e giustizia, dove si abusa implicitamente del sesso (depravazione e tabù) e in maniera massiva e disturbante della violenza. Refn torna agli albori - forse per il bisogno di non perdersi nel pericoloso successo mainstream - e da sfogo alla sua singolare e contorta immaginazione delineando una trama essenziale e assai spicciola, istruita per sprigionare alla massima potenza la sua perversa e complessa personalità, suddivisa equamente tra i pochissimi ma ben definiti (caratterialmente ed esteticamente) personaggi presenti.
Si discuteva, tempo fa, dell’uso della violenza che il cinema di Refn abbraccia incondizionatamente, tanto da portarlo ad essere accostato erroneamente al cinema tarantiniano, dove la stessa, lì, assume espressioni più gratuite e taglienti. La sua, viceversa, è una violenza esalata con dolore, il dolore di chi non vuole ma è costretto a sporcarsi le mani, caratteristica che in "Solo Dio Perdona" ritorna pur subendo contemporaneamente una sostanziale riduzione che lascia il campo ad un’altro impulso: il dovere. Da una parte quello del poliziotto brutale di Vithaya Pansringarm, giustiziere eccellente, che non sorvola su chi commette errori intollerabili e la fa pagare a chiunque a prezzo pieno sempre e comunque, senza pietà; dall'altra quello del figlio interpretato da Ryan Gosling che non vuole deludere una figura sacra tanto quanto un Dio, sua madre (una inedita e volgare Kristin Scott Thomas), che seppur cattivissima e manipolatrice (del corpo e della mente) merita di continuare a mantenere il ruolo che rappresenta e quindi di essere rispettata.
Refn nutre la sua opera di un'estetica affascinante e coinvolgente: poche luci, molte ombre e colori, alternando le fredde tonalità del blu a quelle più calde e tiepide del rosso e dell’arancione. Una fotografia innaturale, cupa, ma che contribuisce a regalare l'atmosfera tesa di un conflitto amaro e destinato a consumarsi oltre le distanze iniziali, preannunciando la resa dei conti devastante che trascinerà specialmente il Julian di Gosling a scontrarsi coi suoi complessi e le sue debolezze.
Siamo certamente dinanzi a un Refn minore rispetto allo stesso che ci ha regalato "Drive", bisogna ammetterlo, eppure è pur sempre il medesimo. E' il Refn che ci tiene a far sapere che il successo non lo ha cambiato, è il Refn sperimentale, che magari non ti aspettavi più di vedere, è quello che fa discutere perché non lascia indizi sul motivo per cui un talento così grande decida repentinamente di richiudersi in se stesso. Il tutto mentre fuori la folla acclama e grida a gran voce un bis che lui, per ora, tiene riposto in tasca, pronto a giocarlo ad acque calme, quando l’euforia che scorre si sarà placata.
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