Le pantofole strascicate sul pavimento, quei piedi anziani affaticati dal tempo non reagivano bene ai comandi del cervello. Il corpo possente, avvolto nella vestaglia rosa, donava alla figura un senso del tempo andato, corrotto, dicotomia tra ciò che fu e ciò che è. Sarebbe stato perfetto un morbido scialle di lana a coronare il quadro, ma qualche bizzarria nascosta nell’armadio – e nella testa – le aveva fatto indossare un gilet in pile blu, di quelli che si usano per le passeggiate all’aria aperta: era un’immagine distorta, disturbava la vista, ci si perdeva il centro a guardarla.
E pensare che così non era stata, che i tempi erano stati migliori e fervidi, come la sua mente; aveva riempito con la sua presenza le sale, gli uffici, la vita degli altri con la sua figura forte e troppo spesso scomoda.
Aprì la porta con fare sospetto, guardò fuori dell’uscio, nel cortile stretto del castello, una corte su cui si affacciavano i balconi coperti ad archi, rifugio e nascondiglio d’anime, bocca segreta di spie e tradimenti. Sul terreno era posata una ghiaia fitta che al solo sfiorare dei piedi strideva grida di sofferenza, ispirava odio e cospirazione. Sui muri, l’edera cresceva fitta e compatta, donando buio e umidità, ricettacolo di serpi e topi.
Nel centro del cortile, uno sprazzo di sole, filtrato dal cielo esausto.
Era lì che si era fermato. Gli pareva di non perdere vita se restava al sole, di non perdere il colore, il respiro.
“Venga via da lì” gridò con fare sommesso, un grido dalla gola, la signora con la vestaglia rosa. “Venga via e faccia silenzio, non dica una parola.”
Lui si spostò piano, avvicinandosi alla porta di casa. Si guardò intorno, cercando qualche pericolo in agguato ma non vide nulla. Solo bianco silenzio.
“Venga via, non si attardi sull’uscio, entri” disse con una voce che era più un comando che un’esortazione.
Non appena entrato, la donna si sporse per un attimo fuori dalla porta, scrutò in ogni angolo e dopo una militaresca ispezione, rientrò.
“Lei non sa cosa può accadere se si resta in quel cortile! E guai a parlare, lei non ha idea di cosa le potrebbe capitare”.
Il battito si fece più forte, la voce alterata, poi più stretta, china, una sorta di ghigno, nessun sollievo nel buio consacrato da opere d’arte e dall’antico sfarzo della casa. L’uomo non era per nulla tranquillo, gli pareva d’essere entrato in una sorta di sogno irreale, un cantuccio malsano, a fare due passi nella mente malata di qualcun altro, in una torbida storia di sofferenza e disagio.
Ancora perplesso, non parlava, così come la donna di servizio che dal nulla era comparsa. “Là fuori, nell’appartamento sopra al mio, vive una pazza. Grida, insulta, getta oggetti! Ah, voi non sapete quante me ne fa passare, guai a parlare, guai a dire, lei urla, getta, furiosa e senza limite alcuno”. Si fece un silenzio incredulo, le tre figure si scrutarono a lungo, la donna in vestaglia rosa a capo di una setta segreta, gli altri due, vittime inconsapevoli di un film muto.
“Ascoltate”. Dalla finestra aperta si alzò un canto, simile ad un lamento, una nenia, una pozione, un filtro magico, una strega, la voce roca, un continuo, una donna e il suo canto, ipnotico canto, fitto e continuo, un canto. Nessuno dei tre parlò, si guardarono azzerando i respiri. Nessuno si mosse, inchiodati al pavimento nel mentre il canto cresceva, avvicinandosi alla finestra socchiusa. “Ve l’avevo detto, è lei, è pazza, arriva, sta arrivando, state zitti, non dite” soffocò le parole la vecchia nel suo gilet blu fuori moda. Si diresse verso la porta che ancora non aveva chiuso, la ghiaia scricchiolò forte nel cortile, il canto assordante e perforante, un ago, chiodo che trafigge, le pantofole che scappano, la mano distesa, il cuore che sbatte, il canto, un grido, la porta…
Chiara