A quell’ora del primo mattino, il taglio del sole si depositava lento sulle muffe dei muri scalcinati, intensificando il tipico odore di umido che accompagnava l’aria di quella cella.
Le sfere malamente ovali degli occhi si spostarono distratte verso l’intensità luminosa, e le palpebre si socchiusero subito per non essere investite da quell’inutile richiamo di libertà.
La schiena stava sdraiata sul letto inferiore dei due piani accastellati: sopra, nessuna vita abitava le coperte ormai da tre anni.
Le rughe attorno agli occhi cemento, suonavano una silenziosa musica da organino ogni volta che il batter di ciglia ne chiudeva e ne riapriva le intercapedini. Il neo più grosso di quelle pelli consunte si trovava sul gomito, al riparo dallo scrutare vuoto della vista, ma minacciato da una callosità ingombrante che via via acquisiva spazio ed importanza.
La nuca, imbiancata dalle piccole scaglie nevicate dai capelli, stava muta, schiacciata sul cuscino giallo chiazzato, forzatamente al riposo e al buio.
I piedi accennavano qualche movimento di puro istinto, incuranti e accuratamente disconosciuti nella loro utilità di spostamenti, lasciati ad incurvarsi tra il sottobosco di unghie cresciute selvaggiamente.
Le mani pendevano come gocciolanti, sospese a metà tra l’incertezza della vita e la fredda consapevolezza di una morte viva.
Il cervello pulsava ordinatamente, reggendo da solo una dignità sacrosanta, con il cuore a fare il tifo ed il fegato surgelato in una diffidenza innata.
Si alzò, la mattina stava tramontando. Bevve il tempo d’un sorso, spingendolo giù in fondo allo stomaco, a sedimentare i suoi inutili trascorsi.
Anche la noia, infatti, ormai aveva abbandonato il corpo a se stesso.
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