Solo il tempo, solo il vento

Creato il 25 giugno 2015 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

Bogogno è un piccolo paese in collina che sembra quasi disabitato. C’è questo cielo più che azzurro, nessuna nuvola e il sole della mattina che rende brillanti i mattoni delle vecchie cascine. Forse, a star qui isolati per un mese, ci si potrebbe scrivere un libro tutto d’un fiato. Con il sottofondo di questa strada che divide la scuola elementare dal mini market. Un piccolo ufficio postale da una villa antica con il cancello un po’ arrugginito dove si arrampica una rosa. Di tanto in tanto, tra ombra e sole, sale l’odore delle cantine chiuse. Su tutto c’è questo silenzio quasi irreale. Mi passa di fianco una bicicletta. Senza guardare, riconosco la scia di quel profumo. Divise pulite. La cronometro è una disciplina strana e forse anche un po’ maltrattata a volte. Specialmente quando in un Campionato Italiano sulla start list ci sono scritti solo quattordici nomi e i ragazzi che sono pro e nel ciclismo ci lavorano, vengono qui con un’ammiraglia se gli va bene o una macchina qualsiasi e le ruote e i rulli incastrati nel baule alla peggio. Niente polemiche, specialmente quando non si sa proprio a chi si possa indirizzarle. Eppure loro, i ragazzi che corrono in bicicletta, in ogni cosa ci mettono il cuore. E l’indifferenza verso un amore vero così è un peccato difficilmente perdonabile. Un amore che guarda soltanto la strada e la bicicletta. Perché così sono abituati, fin da bambini, fin da quando nelle categorie giovanili pedalavano sognando questi giorni. Questi sono i giorni. E anche se l’Italia tende a considerare la crono una specie di dio minore, anche se tutti stanno aspettando solo Superga, qui c’è sempre qualcosa per cui vale la pena. Nel ciclismo non impari mai abbastanza: le fregature, le tattiche sbagliate, i cambi non concessi e quelli concessi con troppa bontà. Nel ciclismo non ascolti mai abbastanza. Anche le sensazioni a fior di pelle. A volte sfuggono, altre restano nella testa come un marchio a fuoco. Questo lo so bene oramai, è il mio destino: ho imparato che un istante può restare nitido per mesi e mesi nella testa. E qui un istante si fissa per caso. Specialmente quando la questione è così: tu, la bici, la strada. Niente gruppo. Solo il tempo, solo il vento. Il rumore sordo della ruota lenticolare, le campagne che in questa luce di metà pomeriggio hanno scorci che assomigliano assurdamente a certe pagine di Sulla Strada.  Forse le High Roads sono dentro di noi. Si può persino vedere lo sforzo che taglia il vento, nell’immobilità che bisogna tenere per permettere tutto questo. Solo il tempo, solo il vento. E’ per questo che la pedana di partenza sembra lo scivolo verso un limbo tuo e basta. E’ per questo che forse, quando sei a due metri da lì, a cinquanta secondi dal via, si alza una specie di barriera che chiude fuori il mondo. Un po’ si capisce dagli sguardi, dai piccoli tic, dalle mani che sfiorano la bicicletta. Il vuoto leggero allo stomaco, laggiù in fondo. Quello strano posto dove si accumulano le emozioni improvvise, come una carezza inaspettata. Sono convinta che ancora c’è, quel vuoto leggero. Ogni volta. Dietro la concentrazione profonda di quel momento. Perché questo non è un lavoro come un altro. Muori e rinasci come una fenice dalle ceneri della tua passione che tante volte ti consuma troppo. Fa un male cane. Eppure è per questo che si vive. Si fa tutto per la bicicletta. Quel vuoto c’è ancora. Un istante. E basta per tutta la corsa, in qualunque modo andrà. Solo il tempo, solo il vento. Quello che porta profumi di tiglio, di bosso nell’ombra, di spighe dorate che crescono al sole. L’Italia non ha ancora capito che davvero non si può fare a meno di questo. E’ un cuore a metà che va riempito.



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