“Erano soltanto i giovani, orfani di rassicuranti memorie, a lasciare Surco-en-el-suelo inseguendo i propri miraggi. Lo facevano da anni, abbagliati dalle lusinghe di quel mondo tanto diverso dal loro e che luccicava sull’altra sponda del Rio Grande. Là, oltre la frontera; oltre quell’odiosa riga tracciata dall’uomo in terra, ma priva di qualsiasi corrispettivo in cielo”.
“Soltanto il cielo non ha confini” (Ink Edizioni, 2014), seconda fatica letteraria del giornalista e scrittore Guido Mattioni, tratta un tema attuale: l’immigrazione.
Dopo il successo del suo romanzo d’esordio “Ascoltavo le maree”, ambientato nella località americana di Savannah, in Georgia, di cui egli è cittadino onorario dal 1998, e adottato come testo di lettura nei corsi di Italiano della Georgia State University di Atlanta, Mattioni, classe 1952, ritorna con una storia vera di cui è stato testimone nel 1986.
Un’esperienza di inviato lungo il confine tra Stati Uniti e Messico, luogo del cosiddetto “viaggio della speranza”, dove da sempre masse di disperati cercano di conquistare un futuro migliore. Nel punto in cui El Paso e la città messicana Ciudad Juarez sono l’uno di fronte all’altra, il Rio Grande, fiume in realtà poco profondo, che per 1400 km traccia la frontiera fra Messico e Stati Uniti, diventa una porta di servizio per accedere al “sogno americano”.
E proprio in una notte del 1986, quando lavorava per il settimanale “Epoca”, Guido Mattioni è riuscito ad aggregarsi ad una pattuglia di Border Patrol, ovvero la polizia di confine americana chiamata a pattugliare gli oltre duemila km che delimitano i due Paesi.
A tal proposito, egli ha dichiarato: “Volevo raccontare ai lettori italiani un fenomeno che a quel tempo non conoscevano nemmeno per nome: immigrazione clandestina. Da noi sarebbe diventata attualità soltanto a partire dai primi anni Novanta, con l’arrivo delle navi e dei gommoni dall’Albania. Negli Usa era invece un tema scottante e di dimensioni quasi bibliche già allora, con un migliaio di passaggi clandestini ogni ventiquattro ore”.
Grazie ad un visore a infrarossi prestatogli dagli agenti, quella notte Mattioni fu testimone di un sogno, il sogno americano di gruppi di disperati che attraversavano il Rio Grande laddove, in prossimità di El Paso, diventa solo un rigagnolo, con l’acqua alla cintola (da qui il nome di wetbacks, schiene bagnate) e un sacco con i loro poveri averi tenuto sulla testa.
La storia si snoda attraverso un intrigo di vicende e personaggi contrastanti, dove i sentimenti umani rappresentano il “file rouge” che la tiene unita. “Il Cielo lassù e i solchi quaggiù”, costituiscono l’unica realtà dell’immaginario villaggio di Surco-en-el-suelo, con i suoi campi di fagioli, che offrono cibo, ma sicuramente non una vita esaltante.
I giovani messicani sognano un’esistenza diversa, e per questo se ne vanno, tentano la fuga in America, anche se questo vuol dire cadere nelle mani di trafficanti senza scrupoli, chiamati “trafficanti di braccia”, ai quali devono pagare cifre esorbitanti, senza avere in cambio alcuna garanzia. Fra questi giovani che lasciano il loro Paese per inseguire l’”American Dream”, ci sono anche i due gemelli Hernando e Diego, tanto somiglianti fisicamente, quanto diversi per indole. L’autore li definisce rispettivamente “un Abele per vocazione e un Caino per necessità”.
In tempi diversi e senza sapere l’uno delle sorti dell’altro, questi due fratelli tentano la fortuna in America, dando vita ad una vicenda ricca di equivoci. La loro storia avrà destini differenti, mentre il lettore fa la conoscenza di immigrati e poliziotti, trafficanti senza scrupoli, giornalisti sagaci, gente ai margini e soprattutto uomini e donne dall’animo generoso, che si prodigano nell’aiutare il prossimo.
Personaggi molto ben delineati e descritti, anche quando marginali ai fini della storia. Ho trovato la scrittura di Mattioni molto interessante, esaustiva al punto giusto, senza mai essere tediosa. Ha lasciato al lettore la facoltà di spaziare con la fantasia, nonostante una prosa evocativa lo guidasse sui luoghi della storia. Siamo stati davvero nei pressi del Rio Grande, abbiamo vissuto appieno le vicende narrate.
D’altra parte l’autore è un giornalista, e quindi avvezzo a “proiettare” il lettore direttamente “dentro alla notizia”. L’unico appunto che posso fargli, ma è naturalmente solo un mio pensiero, o meglio, una mia esigenza personale, riguarda i numerosi protagonisti, tutti descritti con dovizia di particolari. Questo smarrisce un po’ il lettore, che vede cambiare i personaggi e quindi non capisce subito a chi di loro “affezionarsi”.
Ma ecco che anch’io sto catalogando, semplificando, schematizzando una storia che invece è già particolarmente complessa di suo. L’uomo, chissà perché, tende sempre a tracciare “confini”. Siano essi fisici, oppure mentali. E allora convengo anch’io con l’autore che spazi aperti e sconfinati, dove è tutto sempre “aperto”, non siano da ricercare sulla terra. Perché in fondo, a volere ben guardare, è soltanto il cielo a non avere limiti. Verrebbe da dire, sfruttando la modernità di questa storia, a non mettere “paletti”.
Written by Cristina Biolcati