Di questi tempi, bisogna essere pazzi per credere nelle parole. E Don Gallo nelle parole ci credeva, fossero quelle del Vangelo o quelle sconnesse che fuoriuscivano dalla bocca dell’ultimo dei reietti. E ci credeva nonostante conoscesse bene le debolezze umane, la naturale propensione dell’uomo alla mistificazione, alla strumentalizzazione, tanto più quando ci si trova in disagio.
Non era un ingenuo, Don Gallo; sapeva che dalle parole non ci si poteva attendere sempre la rivelazione, ma che in ognuna di esse, nel contesto e nel modo in cui veniva usata, era sempre presente una testimonianza, uno spaccato di verità. De Andrè si disse amico suo, di un prete, perché era stato l’unico religioso a non volerlo a tutti i costi mandare in Paradiso. Ecco: Don Gallo si avvicinava ai derelitti non per redimerli, ma per dargli sollievo, per accompagnarli in un sentiero di riscatto.
Era un prammatico, altro che sognatore, uno che ha migliorato la vita materiale, oltreché spirituale, di molte persone; uno che ha arginato la criminalità in modo molto più incisivo di qualsiasi legge o ordinanza. Ora, l’errore da non commettere è di trasformarlo in un’icona da aggiungere allo sterminato Pantheon della civiltà dei consumi, sempre a caccia del consolatorio e del commovente, sempre affamata di buone novelle, ma sempre più distratta e indifferente.
Don Gallo era semplicemente un buon cristiano, con un’energia e una forza comunicativa fuori dal comune. La sua adesione al Vangelo non si manifestava nella narrazione pedissequa delle parabole, ma nella loro traduzione immediata in azioni quotidiane, priva di didascalie.