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Somewhere: l’Insostenibile Leggerezza di una Vita da Star

Creato il 18 giugno 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Postato il giugno 18, 2012 | CINEMA | Autore: Calogero Milazzo

Somewhere: l’Insostenibile Leggerezza di una Vita da StarSemplicemente da qualche parte, una Ferrari nera gira su un ovale nel deserto. Poi da qualche altra parte, stanza 59; non un posto come un altro in verità, perché gli interni sono quelli dello Chateau Marmont, hotel diventato celebre per la morte di John Belushi (e che Quentin Tarantino con i compagni di università, tra cui Robert Rodriguez, aveva già trasformato nel set di Four Rooms). In quella stanza, il protagonista è comodamente sdraiato sul letto, con un braccio ingessato, a godersi una twin lap-dance. Vive lì dentro, depresso e solo: riempie sé stesso di alcol e la sua notte di donne, ma la mattina seguente tutto è come prima. Occorre dire che è un personaggio famoso, il solito attore-soggetto cinematografico, stereotipato, hollywoodiano, viziato ed incompreso, ben differente però dall’attore interpretato da Bill Murray in Lost in Translation, sempre di Sofia Coppola. Questo Johnny Marco (Stephen Dorff), non è sofisticatamente angosciato, quasi esistenzialista come il suo predecessore nel palmares della Coppola, ma più semplicemente gettato incomprensibilmente nella vita di tutti i giorni, duro di facciata ed inconcludente. Sposta di continuo un’attenzione distratta su concetti e oggetti effimeri, accompagnato da una strana forma di disagio verso di sé che è anche materializzata attraverso sms anonimi che lo destabilizzano inconsciamente. Ma all’improvviso una luce abbaglia Johnny: un cigno danzante in un lago ghiacciato spazza via anatre e anatroccoli rendendo la figlia visibile e contenitore di significati; ma non solo, perché prorompe prepotentemente nella stanza 59 a ricordare i doveri paterni.

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Lui però non è ancora pronto, vive il rapporto con la figlia in absentia, nascondendo e nascondendosi. Un rapporto, il loro, che è tutto da costruire e che si intreccia labilmente con il riferimento all’ex moglie, mai sulla scena e con quello più duraturo dell’amico Sammy (Chris Pontius), guastatore di senso, che non dialoga quasi mai con Johnny. Del resto la figlia Cleo (Elle Fanning) non è sicura di lasciare una traccia sul padre più duratura di una firma sul gesso. Anche Cleo è ingenuamente spaesata, sballottata dagli impegni dei genitori in un tira e molla che la costringe a vivere due realtà indipendenti e forse contraddittorie. Due personaggi quindi che potrebbero evolvere soltanto risolvendo i loro problemi interiori nell’incontro e nel confronto. E sarà Cleo che smaschererà proprio agli sgoccioli della loro convivenza forzata, il suo finto benessere (non sempre «Stai bene? Si» è leggibile come tale), spiattellando al padre la mancanza pressoché totale della sua impronta non tanto educativa, quanto viscerale, paterna. E come se il tempo potesse recuperare un rapporto, le accorda un altro giorno insieme, l’ultimo: perché lui gioca sempre per far vincere anche il banco. E dopo che il banco non prende e non rifila più fiche Johnny si apre a sé stesso, finalmente solo e vulnerabile, in quella stanza di quell’hotel. Non è più un rifugio, o almeno non per adesso: farà sapere se ci sarà bisogno di mandare le cianfrusaglie impacchettate in qualche altro posto o se resteranno impolverate fino al prossimo soggiorno. E via verso un altro Somewhere.

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La potenza espressiva delle immagini fisse, con la camera che aspetta l’inserimento nel campo dei soggetti e il continuo slittamento tra soggetto guardante e oggetto guardato confonde tema e rema e mette lo spettatore in una chiara situazione di osservatore speciale e attento; osservatore non solo di ciò che avviene sulla scena ma anche di ciò che avviene nell’intimo del protagonista. Ed in questo Sofia Coppola è in grado di mostrare elementi che non sono ascrivibili semplicemente ad un piano superficiale dell’esistenza interiore ma che affondano le radici in una verità intrinseca sconosciuta persino ai propri personaggi. La Coppola mostra un universo di immagini ed impressioni pennellate con coscienza e con intimità in una cornice non entusiasmante che però fiorisce nella sua rappresentazione audio-visiva. Il film vince a Venezia, con Quentin Tarantino presidente di giuria; in verità però non convince appieno il pubblico nostrano. Come dargli torto, Somewhere umilia la televisione del bel paese scimmiottando le grottesche “illustri comparse” che fanno da imbarazzante controcampo alla star americana sempre sorridente, pronta ad essere incoronata stallone italiano in terra di conquiste: un affronto che parzialità e spirito critico non sempre riescono ad attenuare.

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