di Lele Mastroleo
Illustrazione di Mario Perrotta
Entro in ufficio con i calzoni sporchi di fanghiglia, ho beccato una pozzanghera scendendo dalla macchina un minuto prima. Ripulisco velocemente con la mano, mi asciugo il tutto con un kleenex e prendo il numero. Sono fermo in fila alle poste. Ho ottenuto il bigliettino dalla macchinetta dispensatrice. Ho avuto un fogliettino bianco con un numero. Mi tocca aspettare.
Sono lì con il panama e la barba, appoggiato al tavolino dei moduli prestampati con un braccio che penzola fuori dalla giacca appoggiata sulle spalle e con l’altra mano sorreggo il mento nell’attesa del turno. Penso che sarebbe un bene tagliare almeno i capelli e poi la giacca che non mi entra più. Dovrei perdere una trentina di chili, dovrei tagliare i capelli e perdere una trentina di chili.
Chissà se non ci sia una connessione fra le due cose.
Sto mettendo le mani nella giacca per controllare di avere ancora in tasca i soldi per pagare la multa. Ho il collo sudato e le gocce mi passano tra i peli della barba e mi prude tutta la faccia. La parte sporca dei pantaloni si è seccata ed inizio a rilasciare ad ogni passo frammenti di fango secco e terra umida. Cerco di sedere sull’unico sgabello rimasto libero, tra una donna anziana e un ragazzo di colore, ma mi impedisce il tutto la mia stazza enorme. Facendo dei calcoli più o meno esatti, dovrei essere almeno un mio trequarti per poterci entrare in quello spazio.
Il display dello sportello lampeggia. Inforco gli occhiali per sincerarmi del numeretto che si è acceso. Mi accorgo che le lenti sono appannate e non solo dal vapore acqueo ma da resti organici e no del kleenex che avevo usato precedentemente per pulirmi i pantaloni. Sono fermo in fila alle poste e in fila con me stesso e la mia pazienza. Ripulisco gli occhiali alla meno peggio con quello che era rimasto del fazzoletto e finalmente leggo il numero. Il mio turno sarà tra altri cinque “coscritti”.
Prendo una rivista in mano e inizio a sfogliarla. Il cassiere dallo sportello mi indica l’espositore con sopra stampigliati i prezzi … della serie: “ti piace la rivista? Accattatala!!!!”. Ripongo la rivista con estrema cautela con movenze rallentate e precisissime quasi avessi in mano la preziosa reliquia di San Cazzato celibe e martire. È il mio numero. All’improvviso mi si affianca una mamma con un numero indecifrabile di prole, sessualmente ben suddiviso, al grido di: “le posso passare avanti? faccio una volata! dovrei pagare un attimino una bolletta…“. Sono normalmente molto gentile e rispettoso delle madri di famiglia. Conosco la loro realtà, fatta di orari di scuola, orari del calcio, orari di danza, orari dei compiti, orario dei cartoni animati, orari di cena del marito, orari della ovulazione, orari delle medicine della nonna, ecc. ecc., donne che hanno una gnosi sulle analisi spazio-temporali pari se non addirittura superiore ad un ingegnere aeronautico della Nasa.
E siccome conosco molto bene questa particolarità delle madri di famiglia, odio, ripeto, odio ognuna di quelle sante donne che usi la parola: ATTIMINO. Lo so che lo usi solo per farmi coglionella perchè già lo sai, madre di famiglia che quel ATTIMINO è una variabile aperta che spazia dal nanosecondo sino ad arrivare alla completa rottura di scatole di chi la subisce,
son riuscito a pagare dopo tre ore e 12 minuti. Son riuscito a pagare.
Esco dall’ufficio postale, felice come un bambino con di fronte un vasetto della nutella, finalmente libero da quel carcere temporaneo che è una fila alle poste, e finalmente raggiungo la mia macchina, che avevo lasciato parcheggiata un po’ fuori dalle strisce blu, convinto di poterci mettere un secondo per pagare e riuscire dall’ufficio postale, sulla quale nel frattempo lo zelo didascalico dell’ausiliario del traffico ha sfogato altezza parabrezza la sua minzione quotidiana di verbali.
Cerco di rimanere calmo. Devo rimanere calmo. Ho pagato la multa, mi rimetterò in macchina, guiderò sino a casa, mi spoglierò nudo come un verme nudo, mi infilerò sotto la doccia e ci rimarrò sino al mio prossimo compleanno, poi mangerò tre piatti di polenta e salsicce e mi tufferò nel letto a festeggiare quella magnifica giornata di merda (e fango).
Sono a casa mentre cerco di mettere in atto il piano studiato a tavolino precedentemente e nei minimi particolari: doccia, mangiata, nanna… inizia a squillare il cellulare, rispondo facendo l’errore più grossolano dell’universo. Dall’altra parte la voce della iena ridens che finge di essere mia moglie: “caro, che ne dici se passo a prenderti e andiamo a vedere RiuchiSasaqualcosa a teatro? … dai sbrigati che arriverò a casa tra un ATTIMINO”.