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Sono quasi morta. E allora?

Creato il 16 novembre 2015 da Nicolamisani

di Meghan Daum

Nell’autunno di quattro anni fa passai numerosi giorni in coma farmacologico dopo avere contratto un caso curiosamente grave di tifo murino. Un’infezione batterica causata dai morsi delle pulci portò a un’insufficienza epatica, problemi ai reni, una meningoencefalite e, tra le altre complicazioni, una sindrome particolarmente letale chiamata coagulazione intravascolare disseminata.

Dopo aver perso la capacità di formare le parole ed essere finita in terapia intensiva, fui sottoposta a numerose trasfusioni di sangue e piastrine, una puntura lombare e infusioni continue di quattro antibiotici differenti. I dottori dissero a mio marito che era del tutto possibile che morissi. A parte questo, avrei potuto avere danni permanenti al cervello.

Fu un calvario, sebbene meno per me che per chi mi stette accanto. Mentre io fluttuavo nell’oblio indotto dal propofol, la mia famiglia e i miei amici affrontarono una sorta di versione anticipata dei cinque stadi del lutto. Patteggiarono e pregarono. Cercarono i miei sintomi su Google, si telefonarono l’un l’altro per ragionare sul mio destino e in generale uscirono di senno per cinque giorni.

Avviso ai lettori: non morii. Non ebbi neanche danni al cervello. Ho un acufene e una piccolissima riduzione dell’udito. Quando me ne lamentai col neurologo, mi disse che non dovevo lamentarmi di niente, dato il “miracolo” della mia sopravvivenza.

“Miracolo” è una parola che non hai una gran voglia di sentire da un neurologo. Con gli altri la metto da parte, specialmente con un’amica cristiana evangelica che ha arruolato l’intera famiglia, il gruppo di studio della Bibbia e tutta la congregazione per pregare per me. Quando visitai quest’amica qualche mese dopo la malattia, suo marito mi chiese se l’essere sopravvissuta per un pelo mi avesse fatto pensare alla vita in modo diverso, o riconsiderare le mie vedute agnostiche. Balbettai una risposta senza senso e mi scusai perché dovevo andare in bagno.

Come emerse, i miei amici laici non erano meno affamati di dimostrazioni della mia trasformazione spirituale o morale.

“Puoi scegliere di trarne qualcosa di positivo e utile”, mi disse una collega. “O puoi scegliere di non imparare nulla e continuare come prima”.

Implicava che il cammino che avevo seguito finora non era per niente buono — non che lei avesse mai sollevato dubbi prima. Ma ora che mi era stata data una seconda opportunità le cose sarebbero state diverse. Il mio cumulo di lamentele meschine e preoccupazioni futili, la maggior parte delle quali aveva a che fare con una combinazione di entrate instabili, insoddisfazioni immobiliari e una costante ansia sotterranea per la mia carriera, sarebbe stato schiacciato dalla gratitudine per il semplice fatto di essere viva.

Queste domande avrebbero potuto infastidirmi, se non fossero state tanto familiari. Meno di un anno prima, avevo fatto simili istanze a mia madre mentre stava morendo di cancro. Smaniosa di aiutare lei e me a dare un senso al suo destino (che era crudele; il suo cancro era raro e senza cause, e lei era ancora sulla sessantina), le chiesi ripetutamente di dirmi cosa pensava. Stava cominciando a vedere il mondo in un modo diverso? C’era qualcosa che improvvisamente aveva iniziato ad avere senso?

Non ero sicura se la sua riluttanza a rispondere fosse il risultato di non avere risposte o di sapere che quelle che aveva non erano quelle che stavo cercando. Mia madre e io non avevamo una relazione propriamente calorosa, anche se non era neanche lontanamente così carica di gelo, e spesso di dinamiche ostili, come quella fra lei e sua madre. Ma temendo di essere giudicata se non mi fossi dimostrata una figlia adorante e devastata dal dolore, misi in scena uno spettacolo che doveva suggerire che un nuovo e più profondo legame madre-figlia stava portando a momenti di guarigione e rivelazione per entrambe.

“Stiamo avendo momenti davvero speciali”, scrivevo nelle mail ad amici e parenti. “Stiamo scorrendo le vecchie foto di famiglia e ricordando i tempi passati”.

In realtà, le poche volte che avevo tentato di scorrere le vecchie foto di famiglia, mia madre era troppo confusa per essere interessata. Sembrava pensare che le chiedessi di organizzarle. Ma dato che riferire questa verità cruda e poco poetica era chiaramente inadatto all’occasione, continuavo con i miei messaggi in stile “Brodo caldo per l’anima”. “È spirata serenamente questo pomeriggio”, scrissi quando morì il giorno dopo Natale. Mi misi persino a dire che mia madre aveva “tenuto il Natale per noi”, aspettando il giorno successivo per morire, evitando così di rabbuiare le luci di questa festa per il resto delle nostre vite. Mio fratello, per quanto avesse dato i suoi contributi alla zuccherosità e agli eufemismi, di fronte a ciò alzò gli occhi al cielo. Anche mia madre probabilmente l’avrebbe fatto. Era rimasta incosciente per molti giorni prima di morire; pareva improbabile che sapesse che giorno fosse. La scrittrice in me detestava l’eufemismo “spirare”, ma la piaciona sapeva che occorreva tenere le cose a una velata distanza.

Nell’aiutare mia madre nelle cure durante la malattia, mi ero aspettata di somministrare pillole e litigare con la compagnia assicurativa. Ciò che non mi ero aspettata era che sarei stata tacitamente incaricata di aggiornare gli altri non solo con informazioni, ma anche con una storia. La storia non finiva semplicemente con la morte di mia madre per una malattia casuale, rara e brutale ma con un momento ben preciso di pace o trascendenza — o almeno con qualcosa cui il resto di noi poteva attribuire una misura di significato. In mancanza di alternative, presi la linea del Natale.

Un anno dopo, quando mi trovai a offrire simili banalità dopo avere a mia volta sfiorato la morte — mette davvero le cose in prospettiva, impari cosa è importante, non mi farò più prendere dalle piccolezze — sentii di nuovo che la sincerità sarebbe stata assolutamente scortese, persino un tradimento dell’amore e dell’amicizia.

Per favore non fraintendetemi. Ero grata di essere viva, fisicamente e cognitivamente — e, per essere sincera, ancora più grata di non essere emersa dal coma viva ma con un danno grave e irreparabile al cervello.

Ma mi conoscevo anche abbastanza bene da sospettare che, dopo qualche mese passato a respirare metaforicamente il profumo dei fiori, sarei probabilmente ridiventata quella ingrata lagnosa che ero prima. E più gli amici mi visitavano, portandomi cibi e provviste, e sommergendomi di auguri e di ogni genere di domande sul mio stato mentale, più mi rendevo conto che la loro fame di storie sulla mia trasformazione cosmica proveniva meno dalla preoccupazione per la mia anima che da un bisogno culturalmente radicato di una Chiusura, con la C maiuscola. Dato che volevano che questo capitolo della mia vita finisse, e volevano che tornassi sana come lo ero stata quando ero un’ingrata lagnosa, volevano accertarsi che fossi sufficientemente trasformata da non lagnarmi più o da non essere ingrata di nuovo. Era come se l’unico modo per essere sicuri che il mio corpo fosse libero da infezioni fosse che ero divenuta ufficialmente una persona migliore.

Gli americani non si stancano mai delle storie di trionfo sulle avversità. Ma, sempre di più, ci ossessiona non solo la vittoria ma anche la redenzione. L’anno scorso, quando tre donne di Cleveland furono salvate da un rapitore che le aveva rinchiuse e torturate per anni in una casa circondata da vicini, ci fu chiesto di vederci non uno sconcertante attestato del venir meno della comunità ma, secondo la maggior parte dei titoli, una storia di speranza e sopravvivenza.

Il mese scorso, quando sono apparse nuove informazioni sulla preparazione delle decapitazioni degli ostaggi dello Stato Islamico in Siria, le descrizioni delle torture che i prigionieri avevano subito, così come la notizia che in certi casi si erano rivoltati gli uni contro gli altri o, in misura diversa, sembrava si fossero convertiti all’Islam, il pubblico è apparso agghiacciato, in un modo in cui prima non lo era stato affatto. Forse è perché, fino ad allora, affrontare le notizie delle decapitazioni implicava la fantasia che i prigionieri provassero un senso di chiarezza e uno scopo prima di morire. Volevamo credere che il periodo in prigione, per quanto spaventoso, avesse portato con sé un qualche stato di rivelazione che aveva permesso loro di morire in un modo che non fosse la confusione e la paura abietta.

Le crisi, per definizione, sono caotiche. Non sempre insegnano lezioni e, contrariamente a quanto amiamo dirci, è altrettanto probabile che estraggano il peggio dalla gente quanto il meglio. Ma la narrazione della redenzione, con il suo corollario, la narrazione del recupero, è così cara alla nostra cultura che anche le persone razionali tendono ad aderirvi — non fosse che per fare educata conversazione. È in misura uguale una storia della buonanotte, una storia di amore e una storia di orrore, e l’esempio perfetto della preferenza americana per il sentimentalismo e il finale pulito rispetto all’onestà e all’autenticità.

Il problema è che è anche disegnata alla perfezione per farci sentire dei falliti — verso noi stessi, verso i nostri cari, nella vita in generale. E, ironicamente, più ci sta a cuore la vittima principale della crisi, più ci viene di tentare di spingere questa vittima a darvi un senso, così da alleviare la nostra inquietudine. Aspettandomi che mia madre pronunciasse qualche grande epifania sul letto di morte, stavo in realtà chiedendole di rendere l’iniquità della sua morte in qualche modo più giusta. Aspettandosi che   diventassi una persona migliore dopo avere sfiorato la morte, i miei amici stavano in realtà dicendo che speravano che non avessi fatto prender loro un maledetto spavento per nulla.

Non avrebbero dovuto preoccuparsi. Non sono una persona migliore. Sono la stessa persona. Che in effetti è una sorta di miracolo.

Articolo originale (New York Times). Meghan Daum è un’autrice e commentatrice americana che scrive abitualmente per il Los Angeles Times. Ha curato di recente Selfish, Shallow & Self-Absorbed, una raccolta di saggi di sedici autori sulla decisione di non avere figli.


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