Gomito a gomito lavorano sui propri laptop ipnotizzati dal progetto su cui hanno riposto ogni speranza. L'ambiente di lavoro informale e alla moda influenza il loro abbigliamento, i loro modi di fare ed il loro comportamento. Nello spazio di coworking è difficile individuare gli stereotipi dell'impresa tradizionale: è difficile riconoscere un capo e dei dipendenti, ad esempio, e provando a chiedere a uno dei ragazzi quale ruolo ricopre, la risposta sarà molto probabilmente un qualche nome anglosassone che suona bene ma non dice molto.
Ecco inquadrato il lavoro nelle start-up, le imprese neonate su cui pesa il compito di risollevare l'economia piegata dalla crisi. E mentre, come Godot, si aspetta che nascano i nuovi signor Google, signor Facebook e signor eBay anche in Italia, spuntano come funghi scuole di startup ed organizzazioni che cercano di accompagnare i nuovi imprenditori dall'anonimato al successo.
Successo che secondo le statistiche vedono in pochi, pochissimi. Il 90% delle startup ha vita molto breve, contro un tasso di mortalità d'impresa che in Italia è abbastanza contenuto (7,8%, dato del 2010). Certo, si può forse incolpare il ritardo dell'attenzione politica, l'ambiente ostile all'imprenditorialità, lo strapotere dei grossi gruppi industriali, ma al di là del modello o delle circostanze, il dato di fatto è inequivocabile: le startup italiane non decollano.
Come, non siamo forse il paese dei creativi? Come dimostra, paradossalmente, anche la campagna #CoglioneNo, i creativi, soprattutto se in start up, non sanno far valere il proprio lavoro. O meglio, si trovano in difficoltà al momento di chiedere il dovuto. Forse anche per il fatto di credere che rete, viralità e digitalizzazione bastino per generare un nuovo miracolo economico, ma sembra proprio che sotto lo slang anglosassone e le belle speranze, di sostanza ce ne sia ben poca.
Sperare che i nuovi imprenditori creino posti di lavoro? Molto, forse troppo ottimistico. Al più stanno cercando di creare il proprio posto di lavoro, non certo uno per la collettività. Sono finiti, si teme, i tempi di Cistoforo Crespi o Adriano Olivetti: l'imprenditore non è guida della comunità, ma il "trombato" dal mercato del lavoro che cerca un ripiego trendy.
Voglio essere cattivo e provocatore, citando un personaggio ancora più provocatore ed antipatico, Salvatore Aranzulla, blogger noto per generare una quantità impressionante di visualizzazioni (e introiti pubblicitari) con articoli su "come fare per…" quasi banali e scontati. Alla domanda di Working Capital (qui l'intervista completa) «Cosa ne pensi della scena italiana delle startup? Concordi con chi parla di “bolla”, oppure no?», la risposta è stata:
Se devo essere sincero mi vengono in mente due termini: fuffa e vittimismo. L’incapacità di portare a termine un qualsiasi progetto da parte di molti diventa l’occasione per lamentarsi. Dal mio punto vista, non è questione di bolla o meno: le innovazioni possono venire anche da aziende consolidate. L’importante è lavorare sodo, piuttosto che sprecare tempo ad eventi per startup.