di Cristiano Abbadessa
Viene in mente, per associazione di idee che non ci pare forzata, che gli stessi scuotimenti di capo e gli stessi sguardi di commiserazione (talora infastidita) sono stati rivolti, da oltre un anno fino a domenica scorsa, a quei comitati che hanno promosso i quattro referendum per cui si è appena votato.
Non interessa certo entrare qui nel merito delle questioni e dei quesiti. Ma non può sfuggire che a promuovere i referendum, e a raccogliere le firme con una gratuita dedizione, sono stati movimenti e associazioni supportati da strutture organizzative apparentemente deboli; i grandi partiti hanno ignorato o avversato lo sforzo, e l’apporto di un paio di formazioni politiche minori su un paio di quesiti non è mai parso decisivo. I promotori sono stati a lungo considerati dei fastidiosi fissati che si impegnavano in un’impresa “inutile”; quando poi, di recente, il governo ha cominciato a conoscere qualche problema di tenuta, molti vecchi volponi dei partiti teoricamente più vicini ai referendari hanno lanciato l’allarme, vaticinando che il fallimento dei referendum sarebbe stato “controproducente” e avrebbe ridato fiato a una maggioranza in difficoltà. I dotti medici e sapienti fondavano il pessimismo sulle solite inoppugnabili ragioni storicamente provate: disaffezione del popolo verso lo strumento referendario, complessità dei quesiti, eccessivo tecnicismo di alcune questioni; ergo, impossibilità di raggiungere il quorum dei votanti, tanto più, spiegavano ancora una settimana fa gli esperti togati di flussi elettorali, che a fronte di una crescente disaffezione politica (astensione) si sarebbero dovuti recuperare milioni di voti dallo schieramento opposto (ma opposto a cosa?), il che era del tutto irragionevole.
Sappiamo tutti come è andata a finire.
Semplicemente, i politici “saggi e maturi”, quelli un tempo abituati a creare il polso della realtà più che a sentirlo, non avevano capito che i quesiti referendari intercettavano bisogni reali e profondi delle persone di questo paese, che andavano incontro a domande diffuse e finora inespresse (perché ignorate da quegli stessi che giudicavano “inopportuno” misurarsi apertamente su certi temi). E un’offerta di partecipazione politica nata dal basso, con pochi mezzi e nessuna visibilità mediatica tradizionale, ha incontrato una domanda che nella società era ben presente.
Per la stessa associazione di idee non forzata di cui sopra, quanto accaduto ci dà dunque qualche speranza e qualche buona sensazione.
Certo, per smentire i profeti di sventura di una realtà eterna e immutabile serve, a parte il coraggio e qualche buona ragione, la capacità di intercettare bisogni diffusi.
È per questo che, con un’insistenza che non teme di essere importuna, abbiamo chiesto a chi ci segue una sincera opinione sul nostro progetto editoriale. O meglio, su quel cuore del progetto che è la volontà di pubblicare opere di narrativa cha aiutino la riflessione e la comprensione della realtà sociale dell’Italia contemporanea.
Sono temi che a noi paiono importanti, ma che nel contempo ci sembrano (volutamente?) ignorati da chi continua a sfornare una letteratura che pone al centro l’uomo che si guarda dentro e si avvoltola su se stesso, in uno psicoanalismo parareligioso privo di rapporto col mondo.
Le nostre opere vorrebbero appunto differenziarsi e colmare un vuoto, rispondendo a una domanda che crediamo presente.
Se, invece, sono percepite solo come romanzetti più o meno riusciti, è bene saperlo.