“Sono stata Orsa a Brauron“. Braurone (in greco antico Βραυρών) è oggi un sito archeologico dell’Attica. In questa località sorgeva un tempio dedicato ad Artemide (la Diana latina, dea della caccia) che proprio per questo, veniva chiamata Artemide Brauronia.
Quest’ultima versione del mito è molto avvincente perché c’introduce in un rituale greco decisamente sorprendente: la giovane Ifigenia infatti, salvata dalla stessa dea, fu condotta a Braurone (oggi Vravrona), dove divenne grande sacerdotessa e dove morì.
Successivamente in questo luogo, guidate dai padri, si recavano le giovani ateniesi, chiamate orsette (artiktoi) per partecipare ad una cerimonia misteriosa e iniziatica. Le fanciulle arrivavano da Atene al grande santuario in processione, vestiti con abiti color zafferano e danzavano imitando le movenze delle orse. I riti si concludevano con l’uccisione di un’orsa: il sacrificio di un animale dunque, accompagnato da un pasto rituale. Questo aveva una grande importanza nell’antichità, ma anche nelle culture sciamaniche, poiché permetteva alle proprietà dell’animale di trasferirsi alle persone.
In questo caso, le qualità preponderanti dell’orsa, quali l’istinto materno e la sua forza, si sarebbero trasmesse alle giovani ateniesi in procinto di diventare spose e madri. Si trattava evidentemente di un rito di passaggio dalla condizione puerile a quella adulta. Quindi la dea selvaggia era associata alla maternità, all’energia, alla forza proprio attraverso la sua identificazione con l’orsa. Raccontato ed interpretato il mito, possiamo capire meglio il perché del titolo del libro e il contenuto dell’ultimo capitolo che porta la stessa intestazione, collegandosi in tal modo circolarmente alla titolazione dell’opera.
Nella parte conclusiva Angela Lanza sostiene: “Ifigenia non rappresenta soltanto il passaggio iniziatico dalla pubertà alla giovinezza, ci ricorda anche chi la conduce in questa trasformazione e chi la determina. Il padre accoglie questa bambina trasformata…..Saranno appunto i valori dell’orsa ad impedirle di diventare una moglie-bambina. Ifigenia, dunque, vive il tempo primordiale degli archetipi divenuto presente. Un tempo che agisce ancora in tutti noi con la forza potente della sua attualità. Nel momento del passaggio sembra che la ragazza cessi di essere figlia della madre per entrare sotto la tutela di Artemide prima di presentarsi al padre. Questo padre la toglie alla madre nel tempo in cui la società ha bisogno di lei, vale a dire quando può essere utile alla riproduzione; né si tratta solo della riproduzione: è sacrificata per far sì che la vittoria dell’intera comunità maschile sia attuabile e si rinnovi ancora”. (pag.157)
Sono queste le conclusioni a cui perviene la nostra scrittrice, militante all’interno di organizzazioni politiche della sinistra, nota collaboratrice delle riviste Mezzocielo, Nosside e Segno, nonché autrice di diversi saggi. Da femminista negli anni ’70 si specchia insieme con le sue amiche con le quali costituì un gruppo di ricerca, nelle donne che contribuirono in modo decisivo nel secondo dopoguerra all’occupazione delle terre e non può non rilevare, al di là delle forme più o meno reali o apparenti di emancipazione conseguite, il difficile connubio tra maternità e socialità, tra pubblico e privato, tra potere del padre (sia esso il padre genetico, il marito o il partito di appartenenza, simbolicamente chiamato dalla scrittrice padre) e l’affermazione della propria identità.
Non solum sed etiam comprende anche che ormai anche lei, come le sue compagne del gruppo di ricerca, è diventata specchio per le generazioni successive, specchio però in cui guardare, ma non specchiarsi se si vogliono eludere le persistenti barriere al riconoscimento integrale della parità, se l’accesso al ruolo sociale della donna non deve essere più un permesso del padre, sia esso quello del padre naturale o di un padre simbolico, quale il partito, ma un diritto acquisito per capacità, competenze e meriti, insomma fare emergere l’orsa che è in ogni donna, senza che venga dato il permesso autoritario di un fantomatico padre che conceda il permesso di essere oltreché mogli e madri, anche cittadine consapevoli e partecipi. La mancanza di parità è ahimè persistente: lo dimostra il pietoso 30% di rappresentanza femminile in parlamento, presentato alle masse come espressione di grande emancipazione, di grande apertura mentale; lo dimostra il ritardo nell’accettazione della norma che istituisce il duplice cognome, paterno e materno per i neonati,contravvenendo fra l’altro alla Carta europea dei diritti dell’uomo che ha già condannato l’Italia che anche per questo motivo viola il principio di uguaglianza, lo dimostra il terribile e persistente femminicidio, etc…
Il desiderio di confronto con il movimento femminista successivo al ’68 determina la volontà del Gruppo di ricerca prima menzionato, d’ intervistare le donne che allora collaborarono con forza all’occupazione delle terre. La prima intervista avvenne nel 1977 in occasione della celebrazione del trentennio dell’eccidio di Portella della Ginestra, la seconda vent’anni dopo, nel 1997, quando il passare del tempo e, con il suo trascorrere, il mutare dell’io determinano uno stato d’animo e un atteggiamento diverso nell’affrontare il dialogo con le intervistate, infatti nel’77 Angela e le sue amiche non cercavano una verità storiografica, ma una risposta alle loro domande e procedevano a tentoni, spesso senza il necessario distacco fra intervistata e intervistatrice, poiché in quelle conversazioni era nata “una circolarità effettiva… atta a mettere insieme”, dice sempre la nostra Angela “i tre grandi periodi del cambiamento avvenuto negli anni in cui ero bambina: la fine del regime fascista, la guerra, le occupazioni delle terre” (pag.16,17); nel ’97, a cinquant’anni ormai dai fatti di Portella della Ginestra, la scrittrice torna da sola, ma non più animata dal desiderio di confronto o dalla ricerca di risposte, quanto spinta dal desiderio di restituire l’immagine delle lotte che le protagoniste conservavano ancora limpidamente dentro di loro, ma a cui la stampa del tempo non aveva dato la rilevanza che meritavano e che le donne stesse, avendo vissuto quegli eventi nella sconfitta, avevano taciuto. Di fatto la riforma agraria si rivelò presto un fallimento: la nascita di piccoli lotti di terreno e per di più scadenti, non avrebbe mai potuto consentire la nascita di una moderna azienda agricola e la controprova sta nell’ondata migratoria degli anni’60, che spopolò le campagne delle aree interne della Sicilia
Dall’autunno del ’44 la Sicilia fu interessata dalle lotte di un movimento contadino che questa volta, a differenza di quanto era accaduto nel primo dopoguerra, aveva assunto i caratteri di un’ agitazione di massa. L’occasione, se così la si vuole definire, fu offerta dai cosiddetti decreti Gullo, dal nome del ministro dell’agricoltura che li aveva emanati, che venivano ad incidere pesantemente sui tradizionali rapporti economico-sociali delle campagne siciliane. Entrati in vigore nell’ottobre 1944, essi riguardavano fra l’altro la concessione delle terre incolte e mal coltivate ai contadini e la modifica dei contratti agrari che adesso prevedevano una spartizione del prodotto tra proprietario e contadino nella percentuale di 60\40. Tali provvedimenti provocarono resistenze da parte dei padroni, che si giovarono, come era già avvenuto più volte in passato, delle organizzazioni mafiose che si misero al servizio della proprietà ed imposero, attraverso una serie di intimidazioni e di delitti, il loro ordine sociale, ma si giovarono anche della carenza di iniziativa, per non parlare di collusione, sia delle forze dell’ordine, sia delle pubbliche autorità deputate alla applicazione della legge.
Le agitazioni consentirono l’emergere di un irreversibile processo verso l’acquisizione di un ruolo politico da parte di quel mondo contadino fino ad allora distintosi per una storia di lotte, in alcuni casi anche durissime, ma sempre votate alla sconfitta. Sul piano politico, la riforma agraria, varata dalla prima Assemblea regionale siciliana, infatti, è anche frutto di tale esperienza di lotta che vede anche le donne protagoniste, sebbene le modalità di realizzazione più che vincitrici le faceva sentire sconfitte. Ripetutamente racconta la scrittrice di avere sentito questa frase: “Le terre non le hanno assegnate a chi ha lottato“. Attraverso una serie di cavilli giuridici e burocratici, erano state assegnate le terre peggiori e spesso erano state escluse le famiglie che si erano messe più in evidenza durante le lotte.
Dai racconti delle intervistate emerge un contesto storico-sociale fatto di ingiustizie quotidiane, di miseria, di fame, di soprusi perpetrati anche dalla chiesa che sostenitrice del potere costituito, negava alle ribelli comuniste anche il battesimo ai bambini in punto di morte.
Scrive Pio La Torre in Comunisti e movimento contadino in Sicilia: “Forse ai giovani d’oggi risulta difficile capire, tanti anni dopo, la realtà sociale di quel periodo: grandi masse di senza terra e di senza lavoro che vivevano in condizioni di estrema miseria, direi d’inciviltà” (pag.107)
Né migliore in questo contesto era la situazione specifica delle donne: la scrittrice racconta che molte di loro dicevano che la loro condizione “era faticosissima: lavoravano nei campi insieme agli uomini e poi, tornando a casa badavano ai conigli e alle galline, facevano in casa il pane e la pasta, lavoravano alla fontana, rigovernavano le case, accudivano ai bambini, lavoravano a maglia e ricamavano, senza un attimo di sosta. La sera preparavano la cena al marito. Dovevano anche in qualche caso servire in casa del barone. Il sovrastante se gli piaceva se la portava a letto” (pag.103).
Tale descrizione dei molteplici lavori e non solo in cui era coinvolta la donna, la fame e la miseria che accompagnava la sua inesauribile attività, credo che faccia comprendere appieno il perché dell’intervento attivo, gioioso (partecipavano con priu, dicono spesso nei loro racconti), creativo, anche violento all’occorrenza delle donne che durante le occupazioni venivano sempre per prime, facendo da scudo con la loro femminilità agli uomini contro l’intervento armato delle forze dell’ordine o dei mafiosi, così come basta a far capire il perché i padri davano via libera alle figlie, concedendo il permesso della trasgressione, vale a dire la possibilità d’imboccare un percorso diverso da quello che la madre era stata costretta a seguire. “Per queste donne si era aperto un varco, per noi attraverso la loro memoria”, dice ancora la nostra Angela, “uno spiraglio di graffiante potenzialità che gettava luce, questa volta sul loro desiderio di uguaglianza e libertà” (pag.27).
Per concludere, con questo saggio, composto con un stile scorrevole e chiaro che talvolta sa diventare anche lirico, Angela Lanza non solo pone in primo piano il ruolo avuto dalle donne nell’occupazione delle terre nelle Madonie e nel Corleonese, ma ci induce anche a chiederci e a riflettere su quanto il loro desiderio di libertà ed uguaglianza sia oggi diventato realtà, su quanto nella complessità e criticità della società attuale , ci resti ancora da fare affinché nel privato e nel pubblico libertà ed uguaglianza fra tutti gli esseri umani siano realmente il fulcro portante per il persistere dei valori della civiltà.
Written by Francesca Luzzio